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L’immobilismo della politica estera italiana nel contesto internazionale odierno

  • 13 feb 2020
  • Tempo di lettura: 10 min

Aggiornamento: 1 nov 2020

La nostra penisola ha sempre sofferto di una sorta di disturbo bipolare quando si tratta di argomenti quali il Mediterraneo o la geopolitica mediterranea. Benché il nostro paese abbia sempre cercato di far valere la sua dominante posizione geografica nel bacino per elevarsi allo status di grande potenza regionale, si è sempre ritrovato relegato ad un ruolo subordinato, quasi da gregario. Non solo, ma in generale nello scacchiere europeo[1], il nostro Tricolore ha spesso occupato una posizione secondaria, sia nelle questioni politiche, che militari. Gli esempi che la storia ci ha consegnato sono molteplici, a partire dal tenebroso periodo fascista, dove, sebbene Mussolini tentò di distaccarsi nel modo più netto possibile, dalle politiche prima e strategie poi dell’alleato tedesco, si trovò ad un livello di quasi sudditanza. Questa “dottrina” è pervenuta fino ai giorni nostri, con un immobilismo sia nei confronti del nostro naturale sbocco marittimo, sia dei partner europei, con i quali, al contrario, dovremmo intrattenere politiche comuni per rispondere alle crisi che si prospettano oggi. L’inattività che attualmente ci caratterizza ci rende non solo dei partner inaffidabili, ma ci condanna anche a non contare nulla in quello che è il concerto europeo odierno[2]. La domanda sorge, dunque, spontanea: perché come Paese contiamo poco o niente?


Uno spunto storico-geografico

Un punto di partenza nella definizione dell’immobilità italiana è sicuramente il fattore geografico. Il Mediterraneo è un bacino decisamente particolare nello scacchiere internazionale, dato che, oltre ad essere una zona di congiunzione tra le quattro faglie etnico-culturali principali, è anche un fulcro per il controllo dei commerci da e verso l’area mediorientale ed asiatica. Accresce la sua importanza la presenza di porti e passaggi chiave per la politica strategica non solo regionale, ma soprattutto internazionale, come testimoniato dalla presenza della Sixth Fleet americana nella base militare della Naval Support Activity Naples, a Napoli, nell’ambito della proiezione di potenza mondiale americana. Tutto questo è importante da ricordare perché va fortemente a condizionare l’operato italiano. Partendo da questi presupposti si può analizzare la situazione geografica nella quale è immersa la politica geostrategica italiana. Anzitutto è necessario focalizzarsi sulla condizione di penisola che caratterizza il nostro paese, sia come fattore di lontananza che di congiunzione. Le penisole sono, da sempre, condannate ad una doppia presenza sia sul continente che sul mare. L’Italia non fa eccezione, come si può constatare dal fatto che la storiografia stessa ci racconta come, durante entrambe le Guerre Mondiali, si assistette ad un’importante partecipazione di truppe italiane nel continente. Il caso italiano, però, è estremamente particolare. Sebbene la catena delle Alpi, a nord, costituisca un importante sbarramento con il continente, non preclude totalmente l’accesso da e verso di esso. In aggiunta, la peculiare caratteristica del Mediterraneo di essere un mare stretto obbliga ancor di più il nostro paese a giocare su posizioni multiple. Tutto ciò suggerisce un’elevata difficoltà per un attore come il nostro, obbligato a giocare su più campi con risorse limitate ed obbligato a vincere su entrambi gli scacchieri per mantenere un sufficiente margine di manovra. Non bisogna dimenticare che, ad oggi, l’Italia si trova al centro di uno dei più imponenti flussi migratori, dal sud verso il nord del mondo, che la storia ricordi. A questo punto è utile chiedersi quanto sia determinante, geopoliticamente parlando, il Mediterraneo. Allo stesso modo è necessario estendere gli orizzonti dell’analisi geografica, senza focalizzarsi soltanto sulle aree costiere immediatamente limitrofe al nostro paese. L’Italia non soltanto può essere rappresentata come un paese al centro di un bacino ristretto, ma a sua volta è circondata da enormi aree continentali, con elementi sia montuosi che pianeggianti (oppure desertici) appartenenti a diversi continenti. Appariamo come un’isola protesa nel Mediterraneo fino alla sua sponda opposta, rimanendo però divisa (anche se non totalmente) dal resto del continente europeo grazie alle Alpi[3]. Un’ulteriore particolarità del bacino è che è attraversato da diverse direttrici importanti che lo legano al resto del mondo, su tutte quelle verso l’Atlantico, l’Oceano Indiano, l’Europa stessa e l’Africa. Seguendo quest’ottica, vediamo un’Italia caratterizzata da una straordinaria centralità geografica, che la pone al centro di un’intricata rete di interazioni non soltanto politiche, ma anche economiche e fisiche. Se secondo alcuni punti di vista il nostro paese può più essere visto più come un’isola che come una penisola, che ambisce a controllare entrambi i lati del bacino, andando a giocare una funzione di leader regionale nell’area, è anche vero l’opposto. Si può avere, allo stesso modo, un’immagine dell’Italia come appendice dell’Europa Centrale (che ha come fulcro la Germania), a sua volta appendice del continente asiatico. In un contesto pienamente mackinderiano, si dovrebbe attribuire tanto all’Italia quanto all’Europa, una posizione geografica, ed un conseguente ruolo geopolitico, totalmente marginali. Nonostante questa ambivalenza geografica sia soprattutto “immaginaria”[4], generata principalmente da visioni intellettualistiche, ha finito, storicamente, per tradursi in una duplicità sia geopolitica che geostrategica reale, con conseguenze importanti sullo sviluppo della politica estera nostrana. La compresenza di queste due interpretazioni divenne, nel corso del tempo, un concetto a priori dell’auto percezione italiana. Si può affermare che l’ambivalenza geografica italiana sia, dunque, alla base di molte incongruenze nella gestione della politica estera nostrana, nonostante questa fosse una costrizione tutt’altro che indispensabile. Paesi come la Spagna, la Grecia e la Svezia, con caratteristiche geografiche simili alle nostre, hanno compiuto una scelta radicale nella definizione della loro condizione, propendendo per un indirizzo continentalista oppure navalista, e organizzando la propria politica estera seguendo i parametri tipici di queste.

Se si osserva il bacino nella sua interezza, si può notare come si trovino, nella sua “sfera di influenza” ben cinque choke points di importanza fondamentale[5]per il controllo del commercio mondiale e per il collegamento verso il Mar Rosso e, quindi, l’Oceano Indiano. Oltre alle tre strozzature di Aden, Suez e Gibilterra, la principale via di comunicazione tra l’Asia e l’Occidente, due direttrici sono importanti nello scacchiere mediterraneo, ovvero lo Stretto di Hormuz e quello del Bosforo. Entrambe rilevanti non soltanto perché danno accesso a mercati importanti come quello russo e mediorientale, ma soprattutto per la rilevanza strategica dei due. Lo stretto del Bosforo è l’unica via di comunicazione marittima diretta che la Russia possiede, sia per quanto riguarda il commercio, sia per il rifornimento di materie prime. Controllare il Mediterraneo Orientale significa, e significava, poter filtrare attivamente tutti i traffici da e verso il colosso euroasiatico. Allo stesso modo, controllare la direttrice Est-Ovest dà la possibilità di risalire la penisola arabica fino al Golfo Persico per potersi sia proiettare in un importante mercato, ma soprattutto dare accesso ad una zona geografica incredibilmente ricca di materie prime, in particolare di petrolio. Essendo il nostro posizionamento così privilegiato, fu normale, nel corso della storia, vedere il bacino come l’area d’azione naturale, soprattutto grazie alle sue potenzialità. Tuttavia, la divisione nostrana tra la vocazione navalista e continentalista, creò una spaccatura ancora oggi non sanata, alimentata da una cultura politica altrettanto indecisa su quale linea seguire. Ciò rese estremamente difficile un’identificazione concreta, portando il nostro paese ad una impostazione ibrida che si è sempre dimostrata fallimentare. Un chiaro esempio di questa contraddizione fu l’operato della Regia Marina durante la Seconda Guerra Mondiale, la cui filosofia navale ebbe sempre degli evidenti limiti concettuali. A sostegno di questa tesi, vi fu il fatto che nessun confronto marittimo dimostrò la volontà di conquistare il bacino, nemmeno il lembo di mare del canale di Sicilia che era vitale per il collegamento con i territori libici e per la gestione del porto di Malta. Si può dunque affermare che l’elemento geografico esercitò, ed esercita tutt’oggi, un’influenza notevole sulla politica di sicurezza ed estera italiana, andandone a favorire l’ambiguità e generando situazioni e comportamenti illogici. Questa illogicità è ritrovabile anche in tempi più recenti, a dimostrazione del fatto che, nonostante le personalità e lo scacchiere internazionale siano mutati, i problemi insiti perdurano. L’Italia è rimasta ancorata, dagli anni ’90, a tre aree che oggi caratterizzano il suo operato: quella atlantica, che garantisce la sicurezza militare, quella europea, basata sulla modernizzazione economica e sociale e, infine, quella mediterranea, che dovrebbe assicurare una politica autonoma e la promozione degli storici interessi nazionali. All’interno di quest’ultimo, la Libia ha giocato un ruolo da protagonista, sia come nostro partner privilegiato, che come elemento stabilizzante del Nord Africa[6]. L’interdipendenza raggiunse il suo apice con il Trattato di amicizia del 2009, che garantiva alla Libia la riammissione nella comunità internazionale e favoriva la normalizzazione delle relazioni con gli USA. Parallelamente, Il fondo sovrano del paese garantì liquidità a UniCredit nel 2008 e, nel 2009, acquisì il 2% di ENI, assieme all’acquisto di quote di società importanti come Finmeccanica e FIAT, compagnie aventi un peso importante nell’indirizzamento delle politiche mediterranee. Allo stesso modo, Gheddafi ottenne una non indifferente capacità di influenzare Roma, grazie a carte quali l’immigrazione clandestina e lo spettro del terrorismo, oggi usate da altri attori del Medio Oriente per condizionare la politica estera italiana. Partendo da una relazione così stretta, l’abbandono del principale partner sulla sponda opposta del Mediterraneo nel 2011, che ci ha visto parte attiva nell’attacco ad esso soprattutto per non scontentare l’alleato americano, ha fatto sì che l’Italia perdesse ogni credibilità su tutta la Sponda Sud del bacino.


Uno spunto politico

Il punto di vista politologico è altrettanto importante nella definizione dell’immobilismo nostrano, soprattutto perché si configura come una sorta di estensione dell’ibridazione geografica che da sempre ci caratterizza. Più che ad una dottrina politica coerente e ben delineata, la nostra classe politica ha sempre preferito un approccio basato sul posizionamento di personalità influenti nei posti più prestigiosi, quasi a voler dire “Noi contiamo”, e al volersi porre, e proporre, come fulcro del dialogo e della cooperazione con gli altri attori del panorama internazionale. Tutto questo è riscontrabile in seno alle istituzioni europee, dove il nostro paese esprime l’attuale presidente del parlamento europeo, David Sassoli, e Paolo Gentiloni come commissario europeo dell’economia per l’attuale presidenza Von Der Leyen. Non solo, precedentemente siamo riusciti ad esprimere Mario Draghi, come guida della BCE, Federica Mogherini, Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e, successivamente, Antonio Tajani come presidente del parlamento europeo. Parallelamente, la politica “dell’unisci e comanda”, è immediatamente riscontrabile nelle moderne relazioni con la Cina, relativamente alla nostra adesione alla nuova Via della Seta, e a quell’atlantismo al quale siamo costantemente legati. Il principale problema legato a questo tipo di condotta è che condanna, inevitabilmente, alla dispersione e all’irrilevanza, proprio perché non traccia una linea precisa. Tutto ciò si ripercosse, e si ripercuote oggi, sull’influenza che siamo in grado di proiettare nel Mediterraneo, con una possibilità di movimento che si va assottigliando sempre di più. La stretta di mano tra Putin ed Erdogan all’inaugurazione del Turkish Stream, qualche settimana fa, è il simbolo del fallimento della nostra politica estera nel Mediterraneo e in Libia. Questo gasdotto, con il nome di South Stream, avrebbe dovuto costruirlo l’italiana Saipem, bloccata da Europa e, soprattutto, Stati Uniti per sanzionare la Russia sulla questione ucraina. Questo tipo di limitazioni risultano particolarmente dannose ai nostri occhi non soltanto perché l’UE produce soltanto un quarto del gas che consuma e ne importa il 75%, ma anche perché va a danneggiare enormemente le imprese nostrane che operano nel Nordafrica, soprattutto l’ENI, che produce la maggior parte del suo gas in Egitto e Libia[7]. Allo stesso modo sembra operare la nostra diplomazia, a causa del mancato incontro di Sarraj con Conte a Roma, ma anche nel vertice del Cairo dove il ministro Di Maio non ha firmato il documento finale perché troppo «anti-turco». Sebbene questa manica larga, sotto il profilo energetico e petrolifero, si debba alla diversificazione che il nostro paese ha scelto di attuare, soprattutto verso la Russia, il nostro cortile di casa rimane terra chiave in ottica migratoria e di sicurezza. È ben noto che gran parte dell’immigrazione clandestina che arriva sulle coste italiane ha origine dalla Libia, con non poche tensioni politiche e sociali. Se da una parte la Chiesa ha chiesto una politica di accoglienza le destre hanno puntato sul fermare gli immigranti in Libia e hanno chiesto una modifica al Regolamento di Dublino, che impedisce la distribuzione dei migranti tra tutti i paesi europei e fortemente osteggiata da questi paesi. Il Memorandum d’intesa, firmato nel febbraio 2017, tra l’Italia e il governo riconosciuto dall’ONU di Fayez al-Sarraj, ha formato una cornice per i due paesi che creava gli strumenti per la lotta comune all’immigrazione clandestina, con una diminuzione delle partenze dalla Libia dell’80% nell’anno successivo. Questo Memorandum, tuttavia, è stato fortemente contestato dall’opinione pubblica libica, che si vede impegnata nella detenzione e rimpatrio di migliaia di africani, detenuti in condizioni disumane. Relativamente al capitolo sicurezza, il fatto che questo sia emerso anche in Libia rappresenta un ulteriore fattore destabilizzante e, a tal proposito, la coalizione internazionale è stata fondamentale per eliminarlo. È però doveroso sottolineare come molti paesi nell’area abbiano, probabilmente, manipolato le posizioni italiane con lo spettro del terrorismo e abbiano, così, legittimato la repressione interna invece che una politica di inclusione, che avrebbe potuto diminuire il pericolo della violenza politica[8]. L’interesse primario dell’Italia in Libia rimane senza dubbio quello di creare stabilità in Libia. L’opzione favorita dal nostro paese è quella di un compromesso arbitrato dall’ONU tra i belligeranti e il mantenimento dell’unità nazionale.


Conclusioni

Che il livello della nostra classe politica sia andato drasticamente peggiorando nel corso del tempo è dato noto ed inesorabile, tuttavia personalità importanti hanno occupato la poltrona più importante al palazzo della Farnesina, anche in tempi recenti. Il denominatore comune, nonostante le varie personalità, è stato quello di una dottrina in politica estera fallimentare sotto la proiezione di potenza mediterranea e sul nostro ruolo in seno al concerto internazionale. Il nodo cruciale della carente politica estera italiana è rappresentato da vari fattori, primo fra tutti lo scarso interesse della nostra opinione pubblica che, al contrario, è più interessata alle questioni di politica interna. In aggiunta, gli italiani non pensano che l’uso della forza sia uno strumento di politica estera, vedendo, quindi, l’intervento militare in malo modo. Ma ciò che più caratterizza le nostre lacune, è una mancata attualizzazione del dualismo tra "europeismo" ed "atlantismo", il quale dovrebbe assumere una dimensione unitaria, finalizzata a rafforzare l'idea di un "euro-atlantismo", in grado di costituire lo strumento di coesione non solo economica, ma anche militare, dei Paesi facenti parte dell'UE, nonché, al tempo stesso, idoneo a dare impulso alla creazione di una politica estera europea comune utile a controbilanciare lo strapotere atlantico. Il nostro non è un problema di personalità più o meno carismatiche, ma un congenito difetto che ci vede occupare le posizioni sbagliate nei momenti sbagliati, e ci costringe, per nostra stessa volontà, ad occupare una posizione secondaria che poco si addice alle nostre potenzialità.


Note

[1] Non è qui da considerare quello internazionale, panorama nel quale il nostro paese manca, come potenza, dal termine della 1° Guerra Mondiale. [2] Difatti, sempre più spesso si parla di tavoli di crisi tenuti dai presidenti di Francia e/o Germania, a tutti gli effetti i veri motori trainanti dell’UE. [3] Carlo Maria Santoro, La politica estera di una media potenza, l’Italia dall’unità ad oggi, Il Mulino, pag. 48 e 49. [4] Op. Cit, C. M. Santoro, p. 52. [5] Da sinistra: Gibilterra, Bosforo, Suez, Aden ed Hormuz. Al centro della linea mediterranea l’isola di Malta, storicamente attore importante per via della sua centralità nel bacino. [6] Soprattutto dagli anni ’70 in avanti, grazie alle posizioni antimperialiste di Gheddafi che avevano limitato il diffondersi sia dell’espansionismo sovietico che del fondamentalismo religioso. [7] È necessario sottolineare che l’Eni produce circa l’80% dell’energia elettrica libica [8] Su tutti, l’Egitto.


Bibliografia

Carlo Maria Santoro, La politica estera di una media potenza, l’Italia dall’unità ad oggi, Il Mulino



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