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I Media e la libertà di espressione in Turchia: tra vecchio e nuovo autoritarismo

Aggiornamento: 4 dic 2022

Fig.1: Deputato dell’opposizione distrugge telefono in Aula durante la discussione sulla legge contro la disinformazione online (Credit: Euronews)

Introduzione


La Turchia si trova attualmente al 149° posto nella classifica sulla libertà di stampa stilata dall’Associazione Reporters Senza Frontiere; mentre è ormai dal 2018 (con riferimento all’anno precedente) che Freedom House ha declassificato il Paese da “parzialmente libero” a “non libero”.


Quando si discute sullo stato della libertà di stampa e di espressione in Turchia ci troviamo di fronte a un paradosso: come può un Paese che da anni è tra i Paesi con il maggior numero di giornalisti in carcere, il cui governo ha fatto chiudere centinaia di organi di informazioni (e controlla oggi quasi il 90% dei media) avere una società che è al contempo oggetto di forte repressione e caratterizzata da un vivace dibattito pubblico e pluralismo di idee? La spiegazione risiede nella stessa storia della nascita e dello sviluppo della Repubblica.


1. Tra Democrazia illiberale e Autoritarismo


Fin dagli inizi la democrazia turca è stata schiacciata all’interno di un perimetro ristretto delineato da una “ragione di stato” in chiave autoritaria. Ciò ha dato luogo a una ricorrente tensione tra uno stato fortemente centralizzato, sotto tutela dei militari perennemente in allerta e sospettosi di ogni spinta centrifuga al suo interno, e una società profondamente plurale che non ha mai smesso di provare a emergere nel discorso pubblico. Il “regime tutelare” del Paese ha configurato una democrazia con un livello accettabile di separazione dei poteri, di libertà di stampa e di elezioni regolari; ma dove allo stesso tempo le parti civili si sono trovate a competere per il potere politico solo per doverlo poi “condividere” con i militari. Questi non hanno mai permesso ai civili di concorrere con loro su questioni di rilevanza strategica. In tal senso, nella storia repubblicana post-1950 la competizione politica e il dibattito pubblico hanno potuto svilupparsi e continuare a fiorire fintantoché non hanno superato i limiti prestabiliti dai Militari sulla base di un concetto di “sicurezza” proprio del regime kemalista. In caso contrario questi non hanno esitato (1960; 1971; 1980) a intervenire prendendo le redini del governo e sopprimendo le libertà civili e politiche. Data la natura tutelare del regime militare, tuttavia, gli stessi hanno sempre assicurato il ritorno a governi civili, permettendo il riemergere di un pluralismo di idee e di confronto: gli anni post-intervento militare sono stati generalmente quelli caratterizzati da un maggiore fermento di idee. Rimanevano tuttavia costantemente esclusi dal dibattito pubblico e all’esterno di questo perimetro l’islam, i curdi e la sinistra radicale.

Ciò ha determinato dunque un sistema-paese che ha conosciuto una costante oscillazione tra un sistema democratico illiberale ed uno autoritario, al punto da poter essere descritto come “autoritarismo camaleontico”. In questo particolare meccanismo di riproduzione dell’autoritarismo proprio della Turchia “le strutture rimangono pressoché inalterate mentre a mutare è il carattere identitario” (Donelli p.161). Quasi paradossalmente il nuovo autoritarismo à la Erdoğan è stato frutto dapprima di una politica di liberalizzazione (2002-2006) - civile, economica, politica - e della seguente dismissione del regime tutelare militare (2008-10), per assumere poi la forma di un “autoritarismo competitivo” (2010-2016) che, complici gli sviluppi interni ed esterni al Paese, è andato sempre più consolidandosi (2016-) in una sua propria forma peculiare.


2. Il settore dei media nel vecchio e nuovo regime


Durante gli anni del partito unico - quello repubblicano kemalista (CHP) - della neonata repubblica turca (1923-1950), il settore dei media era strumento diretto della politica di Mustafa Kemal per promuovere la modernizzazione del Paese. La transizione al multipartitismo avviata nel secondo dopoguerra e, soprattutto, la vittoria del neocostituito Partito Democratico (DP) alle prime elezioni del 1950 hanno generato speranze circa una maggiore libertà nei/dei media. Nello stesso luglio del 1950 venne approvata una legge sulla libertà di stampa, seguita da una sulla protezione dei diritti dei giornalisti. Tuttavia, il crescere delle critiche da parte del settore verso le politiche economiche del governo spinse il DP a rafforzare nuovamente il controllo governativo sulla stampa (e università), tanto a livello giurisdizionale quanto clientelare. Paradossalmente, la costituzione redatta dai Militari dopo il colpo di stato del 1960 - entrata in vigore l’anno successivo – da una parte ha istituzionalizzato il regime tutelare delle Forze Armate sui governi civili; dall’altra ha ampliato i diritti civili e sociali, tra cui la libertà di espressione, di associazione e di stampa. Rimase tuttavia in essere il forte legame tra i proprietari dei media e i vertici dello stato.


Se nei primi anni Ottanta, sotto diretta autorità dei Militari (1980-1983), fattori sociali e politici hanno influenzato il settore dei media; con la liberalizzazione economica voluta dal nuovo governo civile di Turgut Özal (Partito della Patria – ANAP) si avviò un’aspra competizione tra le aziende del settore e, attraverso la privatizzazione e le acquisizioni multiple, il mercato dei media si trasformò in un oligopolio di grandi Corporations. A partire dal 1995 cinque grandi Holding - Doğan, Bilgin, Aksoy, Ihlas and Uzan Groups – hanno dominato il settore. Queste, avendo interessi economici in settori paralleli a quello dei media, iniziarono a sviluppare relazioni clientelari con i partiti di governo e altri attori con il fine di acquisire influenza politica. Esse, dipendendo fortemente dal governo per ottenere licenze e sussidi, rimanevano infatti estremamente vulnerabili alle pressioni politiche e, di conseguenza, definivano le linee editoriali in accordo a queste. Ciò ha anche determinato, in secondo luogo, un sistema dei media in cui le varie realtà si sono divise secondo orientamenti politici distinti, creando stretti legami con i partiti; un sistema dove i giornalisti sono attivi nella vita politica cercando di influenzare, invece che informare, l’opinione pubblica su diretto interesse dei proprietari dei media.


Nonostante la progressiva liberalizzazione e una rinuncia dello Stato all’influenza diretta sui media - e dunque una maggiore capacità formale di libertà di espressione – nei fatti si è andata affermandosi una nuova forma di censura e di controllo della politica sui media.


3. I Media sotto I governi AKP


Quando il Partito della Giustizia e Sviluppo (AKP) è arrivato al governo (2002), la situazione nel Paese in materia di libertà di espressione e di stampa non era dunque particolarmente rosea. I report annuali di Freedom House, così come quelli della Commissione Europea, attestano una situazione in cui la libertà di espressione era soggetta a limitazioni dal Codice penale, dalla Legge sulla Stampa e dalla Legge sull’Anti-Terrorismo. In particolare, Forze Armate, Curdi e Islam politico erano temi altamente sensibili che potevano determinare per i giornalisti condanne penali, persecuzioni, detenzioni o arresti. Nel 2001 oltre 80 giornalisti sono stati arrestati per attività politica su tali basi, mentre si attestavano a circa 9mila le persone detenute in connessione alla libertà di espressione.

Fig. 2: Rating decennale (1993-2003) dello stato della democrazia turca (credit: Freedom House)

Da parziale liberalizzazione…


Al momento della sua costituzione l’AKP aveva tra i propri punti programmatici l’ampliamento delle libertà civili e politiche, tra cui quelle di espressione e di stampa; una posizione ribadita una volta vinte le elezioni. Proprio sull’onda dell’accettazione nel 1999 del Paese quale candidato all’Unione, durante il primo decennio di governo il partito islamico-conservatore ha implementato una serie di riforme – anche in materia di libertà civili e politiche – in ottemperanza ai pacchetti di armonizzazione UE. In questo contesto, il periodo 2002-2006 è stato caratterizzato da una decisa impronta di liberalizzazione, all’interno della quale l’AKP ha cercato (ed in parte è riuscito) di scardinare alcuni tabù storici, tra cui quello religioso e quello dei diritti delle minoranze, fino ad allora imposti dal regime tutelare dei militari.


Tale fase di tentata conformazione al diritto UE si è tuttavia protratta in modo scostante e frammentario: ma se fino al 2007 può essere caratterizzata come tendenza positiva, dal 2007 al 2011 le poche riforme apprezzabili sono state oscurate da un trend generale in negativo. In particolare, l’adozione nel 2007 della legge sulla regolazione dei contenuti online, la prassi di intentare cause civili contro giornalisti, scrittori e editori da parte dei politici, nonché le campagne di boicottaggio invocate da questi contro alcuni media critici verso il governo sono stati elementi centrali di quegli anni. A questi si è poi affiancato l’utilizzo crescente di pressioni economiche quali le sanzioni alle agenzie di informazioni non allineate al governo; quelle di tipo politico, come il negato accreditamento di giornalisti “scomodi” o il divieto di pubblicazione a determinati quotidiani (in particolare in lingua curda); nonché di tipo giudiziario, con l’utilizzo della legge antiterrorismo e il reato di diffamazione contro giornalisti e scrittori.


…a progressivo deterioramento


Come riporta Freedom House, nel 2011 il settore dei media in Turchia era “vivace, ma non per questo caratterizzato da standard qualitativi di libertà”: vari giornalisti risultavano in carcere; quasi tutte le strutture mediatiche appartenevano a Holding legate in qualche modo ai partiti politici, e un cospicuo numero di giornalisti aveva perso il proprio lavoro in seguito a critiche al governo. Motivo quest’ultimo per cui l’auto-censura da parte degli stessi stava divenendo un fenomeno sempre più comune. In aggiunta a ciò, lo Stato iniziò a regolare in maniera restrittiva (censurare) lo spazio online: nel 2011 venne introdotto un primo sistema per filtrare i contenuti online, nonché l’oscuramento sistematico di alcuni determinati siti e/o contenuti specifici.


In seguito alle proteste di Gezi Park (2013) la libertà di stampa e di espressione ha subito un ennesimo deterioramento: nell’aprile 2014 è stato approvato un emendamento alla Legge sui Servizi di Intelligence che ha esteso i poteri del MIT (Millî İstihbarat Teşkilatı, Organizzazione d’Intelligence Nazionale), il quale prevedeva anche l’incarcerazione fino a 9 anni in caso di pubblicazione di materiale di intelligence non autorizzato. Sono aumentati poi i casi di perquisizione da parte delle autorità nelle sedi giornalistiche (in particolare quelle ritenute vicine al movimento gülenista), oltre a un incremento qualitativo e quantitativo delle pratiche messe in essere già negli anni precedenti. È in questo periodo, inoltre, che si inizia ad affermare una crescente disparità nella copertura mediatica da parte delle emittenti pubbliche tra partito di governo e opposizioni, in particolar modo nei periodi preelettorali. Da ultimo, considerato l’utilizzo estensivo e il ruolo che ha avuto Twitter (ma più in generale il mondo web) nell’organizzazione delle proteste di Gezi Park, il governo ha iniziato a esercitare maggiori ingerenze e pressioni anche sullo spazio cibernetico.


4. Il nuovo autoritarismo


La reazione del governo al tentato e fallito colpo di stato del 15 luglio 2016 ha infine determinato la più grave involuzione in materia di libertà di stampa e di espressione per la Repubblica di Turchia degli ultimi 35 anni. Nei mesi seguenti il 15 luglio più di 150 organi di informazione sono stati chiusi forzatamente; il partito di Erdoğan ha decretato lo “stato di emergenza” estendendone poi la durata fino a luglio 2018, dopo aver vinto le elezioni presidenziali. La fine di questo non ha però decretato la fine della repressione dei media: a dicembre 2018 erano ancora 68 i giornalisti in carcere, facendo della Turchia il paese con il più alto numero di giornalisti in prigione al mondo. Nuove chiusure di testate giornalistiche e arresti si sono verificati anche negli anni successivi, con un incremento notevole durante l’autunno 2019, in concomitanza all’operazione militare “Primavera di Pace” nel nord-est della Siria.


Sebbene esista a oggi un piccolo numero di organi di informazione indipendenti, questi subiscono costantemente pressioni politiche, giudiziarie ed economiche andando incontro a regolari persecuzioni. Nel 2021 numerosi giornalisti sono stati perseguiti penalmente per aver coperto mediaticamente alcune proteste antigovernative e aver parlato di casi di corruzione interni al governo. Al di fuori di questi elementi, il 90 percento dei media nel Paese figura essere di proprietà grandi aziende con stretti legami personali con il Presidente Erdoğan.

Grafico, Tendenza, Libertà
Fig.3: tendenza (2001-2021) degli indici su libertà civili (in blu) e libertà di espressione e fonti di informazioni alternative (n rosso) (credit: v-dem.net)

Gli sviluppi post-2016 e l’approvazione del referendum costituzionale del 2017 verso un iperpresidenzialismo hanno evidenziato il passaggio da un autoritarismo competitivo “standard” a una più peculiare forma di nuovo autoritarismo. In questo, il principale obiettivo non è tanto la soppressione e il controllo dei media e dell’opinione pubblica in sé, quanto piuttosto la loro manipolazione e strumentalizzazione. Mentre in passato lo stato turco ha utilizzato strumenti giudiziari ed economici per definire i limiti legali e politici del discorso pubblico, nella nuova forma di autoritarismo i media e gli organi di informazione sono diventati essi stessi strumenti del potere statale. La natura corporative della stampa turca e la crescente polarizzazione lungo le divisioni partitiche è divenuta uno dei fattori chiave nell’influenzare i risultati elettorali e contribuire alla polarizzazione della politica. I media governativi sono diventati progressivamente strumenti per debilitare e screditare le opinioni critiche senza dover necessariamente censurarli: una strategia offensiva che consiste nell'articolare in modo aggressivo e ripetitivo contro-verità anche su questioni fattuali, in modi che ricordano la "politica della post-verità”. Una strategia che va a colpire i singoli giornalisti, accusati di diffondere bugie e menzogne, i quali vengono sistematicamente attaccati sul piano personale da parte dei “colleghi” e, sempre più spesso, dai cittadini. L’approvazione nell’ottobre scorso della nuova controverse legge - ufficialmente volta a combattere la disinformazione online, nei fatti nuovo strumento di repressione – potrebbe aggiungere un ulteriore tassello nella strategia del governo di controllare e modellare sempre più la narrativa nel e del Paese. Specie in vista delle prossime, fondamentali, elezioni del 2023. I tragici fatti occorsi domenica 13 novembre scorso potranno rivelare fino a che punto tale strumento verrà utilizzato per incriminare chiunque non si uniformi alla “verità” governativa. Nel frattempo, tutti i canali social nel Paese sono stati bloccati onde evitare speculazioni sull’accaduto e il proliferare di teorie, immagini, video e perché no, proteste.


Un ulteriore aspetto cruciale dei media e dell’informazione in Turchia sotto il nuovo autoritarismo è il fatto che tutte queste pratiche di coercizione, intimazione, svilimento e controllo sembrano esser divenute strumenti per difendere l’immagine, l’identità e gli interessi del partito piuttosto che dello stato (come avveniva invece in passato). Ciò anche e soprattutto data l’abilità retorica con cui Recep Tayyip Erdoğan è riuscito a identificare gli interessi dello stato con quelli del proprio partito e, ancora maggiormente, il partito con la propria figura.


5. Conclusioni


Nonostante l’evidente deterioramento dello status democratico del Paese e l’involuzione nella sfera dei diritti delle libertà, la società turca esiste e resiste al potere dello stato. A testimoniarlo sono le vittorie delle opposizioni alle elezioni locali del 2019 nelle due maggiori città (Istanbul e Ankara), le numerose proteste e contestazioni su specifici temi nonostante l’utilizzo della forza da parte delle autorità, nonché il persistere di media di informazione alternativi a quelli filogovernativi a fronte degli ostacoli e impedimenti cui sono sottoposti. A favorire ciò è sicuramente l’estrema polarizzazione sociale presente oggigiorno nel Paese, tale per cui la principale frattura interna è proprio tra erdoğanisti e anti-erdoğanisti: una frattura capace di coalizzare sei partiti di opposizione che, al di là del contrasto alla figura del Presidente, hanno poco o nulla da condividere. Il secondo elemento che ha impedito il completo tracollo del Paese in termini di pluralismo è proprio la storia della Repubblica: se da una parte la stessa affermazione di Erdoğan al potere e il suo autoritarismo sono imputabili a quell’ “ordine illiberale di sottofondo, caratterizzato da statalismo, nazionalismo, conservatorismo religioso e protezione di potenti interessi economici” (Donelli 2019, p.18); dall’altra, la società civile turca ha beneficiato di più di 70 anni di coinvolgimento democratico e multipartitismo politico. Questa società civile, così come i partiti di opposizione, sono consapevoli dei limiti e delle potenzialità delle strutture democratiche del Paese, ma non hanno mai smesso di credere nelle potenzialità del voto democratico.


(scarica l'analisi)


Bibliografia

  • M. Akser, “News Media Consolidation and Censorship in Turkey: From Liberal Ideals to Corporatist Realities”, Mediterranean Quarterly, Vol. 29, N° 3, pp. 78-97, 2018

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Sitografia

  • Cpj.org

  • Ec.europa.eu

  • Freedomhouse.org

  • Rsf.org

  • v-dem.net

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