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Comunità locali sudafricane vs Shell: un precedente a favore di un diritto umano a un ambiente sano?

Aggiornamento: 16 mar 2022

“(…)Ci hanno fatto questo: hanno trasformato i nostri campi in una putrida e fetida poltiglia.(…) Dopo il massacro della nostra gioventùè arrivata la piaga delle piattaformepetrolifere e altramorte per i terreni coltivatie per i santuari dove vivono i pesci e quelle eterne fiamme che trasformano il giorno in notte e avvolgono la terra in finissima fuliggine(…)Tutti noi siamo di fronte alla Storia. Io sono un uomo di pace, di idee. Provo sgomento per la vergognosapovertà del mio popolo che vive su una terra generosa di risorse; provo rabbia per la devastazione di questa terra; provo fretta di ottenereche il mio popolo riacquisti il suo dirittoalla vita e a una vita decente. Così ho dedicato tutte le mie risorse materialied intellettuali a una causa nella quale credo totalmente, sulla quale non posso essere zittito. Non ho dubbi sul fatto che, alla fine, la mia causa vincerà e non importa quanti processi, quante tribolazioni io e coloroche credono con me in questa causa potremo incontrare nel corso del nostro cammino.Né la prigione né la mortepotranno impedire la nostra vittoria finale.”Ken Saro-Wiwa[1]


1. Introduzione


Il diritto umano a un ambientesano, definibile come il dirittoin capo a singoli individui o a gruppidi persone a vivere in un “ambiente caratterizzato come sano, sicuro, sostenibile, ecologicamente equilibrato”[2], non è riconosciuto né sancito all’interno della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, la quale non contiene alcun riferimento diretto alla nozione di ambiente. Solo dagli anni Sessanta si assiste a una “presa di coscienza” e a una maggiore consapevolezza a proposito dell’impatto che le attività umane hanno sul delicato equilibrio degli ecosistemi naturali e, di conseguenza, alla maturazione della necessità di tutelare e proteggere l’ambiente anche attraverso strumenti legislativi di portata nazionale e internazionale. Anche se vi sono alcuni esempi di strumenti con efficacia vincolante per le parti contraenti che contengono riferimenti all’ambiente in relazione ad altri diritti, come la Convenzione di Aarhus “sull’accesso alle informazioni, la partecipazione dei cittadini e l’accesso alla giustizia in materia ambientale” e il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali volto a tutelare, tra l’altro, il diritto all’autodeterminazione e il diritto alla salute anche in rapporto alle tematiche ambientali, la maggior parte rientra nella categoria degli strumenti di soft law, tra cui la Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’ambiente umano. Quest’ultima è “unanimemente identificata come l’atto che segna la nascita del ‘moderno’ diritto internazionale dell’ambiente”[3], in quanto introduce il concetto di diritto umano all’ambiente, ovvero il diritto di godere di un ambiente la cui qualità permetta di vivere in dignità e benessere.


Nonostante la rilevanza di detta tipologia di strumenti, questi sono facilmente aggirabili,soprattutto da partedi attori economici internazionali su cui non gravanoi medesimi obblighi che gravano in capo agli Stati e che spesso restano impuniti anche a seguito di gravi violazioni dei diritti umani.Tuttavia, la decisione di un tribunale sudafricano di vietare le attività del colosso petrolifero Shell nella Wild Coast fa sperare le organizzazioni ambientaliste di tutto il mondo, nonchéle minoranze etniche e i popoli indigeni di ogni Paese, i quali sono le principali vittime delle dinamiche e delle conseguenze perverse di un sistema economico di capitalismo avanzato e dell’assenza di un’adeguata tutela internazionale in materia sociale e ambientale.


2. Diritto umano a un ambiente sano: novità dal Sud Africa


Una ventata di ottimismo proveniente dal Sud Africa investe il settore della tutela ambientale a seguitodell’importante decisione da parte dell’Alta Corte di Grahamstown, a Makhanda, che il 28 dicembre 2021 ha vietato “con effetto immediato” alla nota multinazionale del petrolio Royal Dutch Shell di effettuare operazioni sismiche a largo della Wild Coast, nella parte orientale del Paese. Decisivoper il raggiungimento di questorisultato è stato il ruolo svolto dalle comunitàlocali stanziate nel territorio in questione, che vedono nel mare non solo la loro principale fonte di sostentamento (la pesca costituisce una delle attivitàpiù importanti per dette comunità), ma anche un elemento sacro su cui si basa il loro senso di appartenenza e identità. Il tribunale sudafricano ha infattisottolineato come la mancata consultazione da parte della Shell dei gruppi e delle minoranze etniche residenti lungo la Wild Coast sia lesiva dei diritti delle comunità in questione, le quali possono e devono partecipare attivamente al processo decisionale circa le attività dell’impresa che possano in qualche modo coinvolgerle o danneggiarle. L’eco della decisione del tribunale sudafricano è potenzialmente vasta e profonda, in quanto essa non si limita all’ambito della protezione dell’ambiente ma riguarda anche la questione delle responsabilità in capo alle imprese nello svolgimento delle loro attività nonché il dibattito inerente al godimento delle risorse naturali da parte di minoranze etniche e popolazioni locali la cui vita e culturaè intrinsecamente legataa esse. A questo proposito, è bene notare come a orientare la decisione del tribunale non sia stata la necessità di tutelare l’ambiente in quanto tale, riconoscendo dunque l’ambiente stesso come titolare del diritto ad essere salvaguardato, quanto piuttosto l’esigenza di difendere le comunità locali e il loro diritto a partecipare alle dinamiche che coinvolgono il territorio, con le sue risorse naturali, e le imprese.


Si tratta comunque di un risultato storico, che segnala un primo “cambio di rotta” in materia, specialmente a fronte del fatto che, precedentemente, le battaglie portate avanti da associazioni ecologiste, anche sotto il vessillo di importanti ong come Greenpeace, si erano concluse con una vittoria della multinazionale. Promotori e guida di tale cambiamento sembrano essere proprio coloro a cui maggiormente era stato negato il diritto di far sentire la propria voce, rendendo la vittoria ancora più significativa poiché mostra, secondo le parole di uno degli avvocati che si è battuto per la Wild Coast e la sua gente, come “non importa quanto sia grande una società. Chi ignora le comunità locali lo fa a suo pericolo”[4].


3. Shell in Africa: la storia (non) si ripete


Non è la prima volta che la nota compagnia petrolifera Shell si ritrovain guerra in territorio africanocontro gruppi locali, attivisti e altri membri della società civile uniti per lottare contro lo sfruttamento di territori e risorse e il conseguente sfrattodelle popolazioni stanziatein determinate aree da tempi immemori, la cui esistenzamateriale e identitaria è strettamente connessaalle caratteristiche e ai cicli naturali del luogo di appartenenza.


Già nei primi anni Novanta, infatti, la Shell era stata pubblicamente accusata di razzismo ambientale[5]e di genocidio da parte dello scrittore e attivista nigeriano Ken Saro Wiwa, appartenente al gruppo etnico degli ogoni, una minoranza particolarmente soggetta alle conseguenze nefaste derivanti dalle attività della compagnia. Ken Saro Wiwa sfruttò la propria visibilità, da una parte, per denunciare la Shell e la devastazione ambientale da questa causata attraverso le trivellazioni e, dall’altra, ottenere giustizia a favore degli ogoni, schierandosi apertamente contro la multinazionale e il governo nigeriano complice e corrotto. L’attivismo dello scrittore trova spazio anche all’interno della sua produzione letteraria e, per quanto riguarda le tematiche ambientali, in particolare la denuncia dello sfruttamento delle risorse a danno della sua terra, è senz’altro da menzionare il racconto “Viaggio notturno”, contenuto nella raccolta “Foresta di fiori”. Le parole dello scrittore ebbero un’eco ampissima, tanto da giungere alle orecchie e al cuore di 300.000 persone che decisero di marciare pacificamente in quella che divenne la più grande protesta nazionale contro le trivelle, a cui presero parte tre quinti dell’intera popolazione ogoni.


Tuttavia, quanto accadde fece emergere in maniera lampante la pericolosità di una personalità come quella di Ken Saro Wiwa, la cui popolarità e il cui carisma avevano unito sotto un unico grido di battaglia centinaia di migliaia di nigeriani, per gli interessi economici e i giochi di potere tanto del governo quanto delle multinazionali attive in territorio nigeriano, in primis la Shell. Nel 1994 Ken Saro Wiwa e altri 8 attivisti ogoni, che insieme formavano i cosiddetti Ogoni Nine, vennero imprigionati, privati del diritto di avere accesso a legali, cure mediche e visite da parte dei familiari, torturati e, nel 1995, al termine di un processo sommario da parte di una corte militare, condannati alla pena capitale per impiccagione.

Figura 1: Manifestanti ogoni richiedono giustizia per i danni subiti a causa delle attività della Shell (https://www.improntaunika.it/ricordando-ken-saro-wiwa-amnesty-international-presenta-un-report-sul-delta-del-niger/)

4. Land e water grabbing: quando il profitto “sorpassa” la necessità di tutelare l’uomo e l’ambiente


Sebbene sia improprio parlare di “indigenato” e di “terre ancestrali” nel contesto subsahariano, vista l’elevatissima mobilità delle popolazioni che vi abitano fin dal periodo pre-coloniale e dunque l’assenza di un vincolo “originario” tra questi popoli e determinati territori, il legame che minoranzeetniche e gruppilocali hanno con l’ambiente in cui vivono,tanto dal punto di vista identitario/culturale quanto da quello riguardante la sovranità alimentare, è particolarmente profondoe, almeno in teoria, inalienabile. Tuttavia, sempre più spesso attorieconomici come impresemultinazionali negano de facto questo legame, sfruttando le risorse naturali vitali per tali popolazioni ecostringendo queste ultime, con la complicità se non addirittura l’appoggio diretto dei governi nazionali dei Paesi in via di sviluppo in cui questeoperano, ad abbandonare le proprie terre favorendo fenomenidi land e water grabbing.


Con “land grabbing” (noto anche come “rush for lando “accaparramento di terre”) si intende indicare l’acquisizione o l’affitto di vasti territori situati in Paesi in via di sviluppo da parte di governi o investitori privatidi Paesi ricchi o in via di espansione, al fine di garantire la sicurezzaalimentare e/o energetica di questi ultimi o per il perseguimento di introiti economici da parte di compagnie private[6]. Negli ultimi anni, queste dinamiche si sono estese anche alle risorse idriche, cosicché si è iniziato a parlare anche di water grabbing. Sebbene ci sia chi ritiene che il land grabbingsia un’opportunità di sviluppo socioeconomico e di miglioramento del tenore di vita per le popolazioni dei Paesi in via di sviluppo[7], in realtà i vantaggi che questo fenomeno comporta in termini di riduzione della povertà, creazione di nuovi posti di lavoro e trasferimento di nuove tecnologie e know how sono nettamente inferiori rispetto agli svantaggi per i membri delle comunità coinvolte. Infatti “(...)l’esecuzione dei regimi di land grabbing è idonea a produrre significativi effetti pregiudizievoli sulla sovranità territoriale, sulle situazioni giuridiche delle popolazioni locali coinvolte (…), nonché sull’ambiente e sulla biodiversità”[8], in quanto la commercializzazione della terra facilita l’esclusione sociale delle comunità locali colpite, ostacola o impedisce l’accesso da parte di dette comunità ai territori da queste tradizionalmente occupatie inquadra l’agricoltura all’interno di un sistemadi mercato globalizzato[9], svuotandola delsignificato socio/culturale che essariveste per le minoranze locali.


5. (Ir)responsabilità sociale d’impresa, tra lacune legislative e assenza di tutela a favoredei soggetti più vulnerabili

Viene dunque spontaneo chiedersi come sia possibile che necessitàed esigenze tanto essenziali come l’appartenenza a una determinata terra, con tutta una serie di diritti da questa derivanti, possano non solo essere ignoratema addirittura deliberatamente negate e calpestate per via di interessi economici e giochi politici.La risposta è tanto semplice quanto spiazzante: non esiste una normativa internazionale che tuteli in maniera adeguata detti diritti dinanzi a violazioni perpetrate da parte di attori quali le imprese multinazionali o, per essere più precisi, non esistono obblighi, e relative sanzioni derivanti da una loro eventuale violazione, in capo alle imprese multinazionali se non la cosiddetta responsibility to respect.


Come spiegato in maniera esaustiva in un interessante articolo di Chiara Mele a proposito dello sfruttamento del popolo Uiguro da parte dell’industria della moda, infatti, destinatari dei trattati internazionali in materia di diritti umani sono solamente gli Stati, sui quali gravadunque l’obbligo di tutelare e promuovere detti diritti, nonché prevenire e reprimere eventuali violazioni anche da parte di soggetti privati. Si riscontra dunque una sorta di accountability gap da parte del sistema internazionale in rapporto alle violazioni dei diritti umani poste in essere nell’ambito delle attività delle imprese multinazionali, soprattutto alla luce dell’influenza economica che queste ultime sono in grado di esercitare sui governi nazionali sia de facto, sfruttando la necessità degli Stati di attirare investimenti, sia de iure, grazieall’applicazione di regimi concorrenti a quello dei diritti umani che “possono interferire con la capacità regolamentare dello Stato quando si tratti di elevare gli standardlegislativi interni in materia sociale e ambientale”[10]. In breve, seppure esista una normativa internazionale volta a prevenire e reprimere condotte illecite poste in essere da attori economici privati, questa non è sempre sufficiente ad evitare la violazione di numerosi diritti umani da parte di questi, soprattutto dinanzi alla sostanziale “tolleranza” degli Stati nei confronti del mancato rispetto delle multinazionali delle norme esistenti in materia di responsabilità sociale d’impresa.


È quanto avvenuto negli anni Novanta, come descritto nel paragrafo 2 del presente articolo, in Nigeria, quando il governo militare si è macchiato del sangue di cittadinipacifici e ha consentito, se non contribuito attivamente, alla violazione dell’ancora non riconosciuto diritto umano a un ambiente sano da parte della Shell nei confronti della comunità ogoni. Tuttavia, la decisione dell’Alta Corte di Grahamstown relativa alle attività della compagnia nella Wild Coast sudafricana sembra presagire un cambiamento di rotta da parte della prassi giurisprudenziale in materia,o almeno si spera.


6. Davide contro Golia: il ruolo dell’attivismo locale nella lotta contro la multinazionale Shell


All’interno di un sistema economico globalizzato in cui vige l’internazionalizzazione delle attività produttive, le imprese multinazionalicostituiscono oggi uno, se non il, principale attore economico di carattere privato del panorama internazionale, andando a ridurre il peso del ruolo ricoperto dallo Stato-nazione, in precedenza protagonista assoluto della scena politica mondiale. Tuttavia, parallelamente al progressivo declino dello Stato-nazione e al nuovo protagonismo di attori economici internazionali, si è assistito all’affermarsi di nuovi attori che sempre più a gran voce rivendicano la propria autodeterminazione, soprattutto nell’ambito di questioni sociali e ambientali: i popoli indigeni e le minoranze etniche.


Le proteste verificatesi in Sud Africalo scorso dicembrecostituiscono un esempiodi come numerosisettori della società civile, in primis i gruppi sociali più vulnerabili e quindi maggiormente colpiti dalle dinamiche più dannosedi un’economia di mercato globalizzata, abbiano maturato quella consapevolezza necessaria per organizzare una resistenza pacifica contro un nemico di portata internazionale. Minoranze etniche, movimenti sociali e semplici privati cittadini si sono dunque riuniti in difesa dei trecento chilometri di costa incontaminata che rappresenta non solo la terra di appartenenza di numerose comunità locali, ma anche rifugio per diverse specie animali e luogo di migrazione per maestosi cetacei, come le balenemegattere.


Il progetto di ricerca dei giacimenti di gas e petrolio della Shell, che prevedeva un sistema di investigazione basato su onde d’urto inviate ogni dieci secondi da particolari imbarcazioni, godeva dell’appoggio del governo, e lo stesso Ministro dell’Energia sudafricano, Ngoako Ramatlhodi, ha accusato i suoi detrattori di bloccare investimenti economici necessari a soddisfare il fabbisogno energetico del Paese. Le pressionidel governo non sono state tuttavia sufficienti a convincere il giudice, il quale ha ascoltato le voci delle migliaia di sudafricani, in primis i membri delle comunità locali, che hanno rivendicato il proprio diritto a un ambiente sano e che, come sottolineato dal tribunale, erano state ignorate in modo del tuttoarbitrario e illecitoda parte del colosso petrolifero.

Figura 2: Manifestanti riuniti per proteggere la Wild Coast e i cetacei (https://www.greenme.it/informarsi/ambiente/fermiamo-trivelle-shell-sudafrica-salvare-balene/)

7. Conclusioni e prospettive future


Nell’ambito di un sistema economico sempre più globalizzato il ruolo di attori economici quali le imprese multinazionali, le istituzioni finanziarie internazionali e altre entità transnazionali ha un peso sempre maggiore, dinanzi al quale gli Stati “chinano il capo” nel tentativo di accaparrarsi investimenti ritenuti necessari alla crescita economica. Questo induce i governi nazionali ad abbassare gli standard di tutela sociale e ambientale, con grave pregiudizio per determinati settori della popolazione e l’ambiente.


Tuttavia, la maggiore consapevolezza e la partecipazione sempre più attiva di quelle fasce sociali tradizionalmente emarginate e, di conseguenza, più vulnerabili, fa sperare in un cambio di rotta che, si auspica, si possa tradurre un giorno in una legislazione internazionale in materiaambientale più idonea a tutelare le situazioni giuridiche soggettive di popoli indigeni, minoranze etnichee gruppi locali. La decisione dell’Alta Cortedi Grahamstown, determinata anche e soprattutto dalle manifestazioni e dalle proteste di migliaia di sudafricani uniti in nome del diritto a vivere e godere delle risorse del proprio territorio in maniera sostenibile, potrebbe essere un piccolo passo verso quella meta che, tanti anni prima, Ken Saro Wiwa e altri attivisti come lui si sono prefissati per il bene dell’uomoe dell’ambiente.


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Note

[1] https://www.cantiere.org/35515/eni-shell-ken-saro-wiwa/ [2] V. ROSSI, Il riconoscimento del diritto universale a un ambiente sano: questioni aperte e percorsi evolutivi, in “I diritti umani a settant’anni dalla Dichiarazione universale delle Nazioni Unite”, a cura di Cataldi, G., Editoriale Scientifica, Napoli, 2019, p. 158 [3]Ivi, p. 161 [4] https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/12/29/il-sud-africa-blocca-per-ora-il-colosso-petrolifero-shell-niente-trivellazioni-nella-incontaminata-wild-coast/6440617/ [5] Termine coniato nel 1982 da Benjamin Chavis, leader afroamericano per i diritti civili, per indicare una forma di razzismo sistemico a danno di comunità etniche minoritarie su cui gravano in maniera particolarmente pesante le conseguenze di politiche e pratiche ambientali dannose che costringono i membri di dette comunità a vivere in prossimità di fonti di rifiuti tossici, con grave pregiudizio per la salute. [6] M. Nino, Il fenomeno della corsa all’accaparramento delle terre e la tutela dei diritti umani delle popolazioni coinvolte, in G. Cataldi, op. cit., p. 230. [7] Ivi, p. 235. [8] Ivi, p. 226 [9] Ivi, p. 237 [10] M. Fasciglione, I Principi guida ONU su impresa e diritti umani e il consolidamento del regime internazionale in materia a settant’anni dalla Dichiarazione universale, in G. Cataldi, op. cit., p. 97


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