Afghanistan - Dieci punti per capire la crisi
- 18 ago 2021
- Tempo di lettura: 10 min
Aggiornamento: 5 ago 2022

Dopo i recenti avvenimenti che hanno portato al ritorno dei Taliban in Afghanistan, gli analisti del Centro studi AMIStaDeS hanno prodotto un compendio in dieci punti che spiega le ragioni storiche, sociologiche che hanno portato a questa situazione e quali potrebbero essere le conseguenze a medio-lungo termine.
1. Dove, come e quando?
(di Eleonora Corsale)

Al crocevia tra Iran, Mar Arabico e India da un lato, e tra Asia centrale e Asia del Sud dall’altro, l’Afghanistan da sempre riveste un’importanza significativa sul piano internazionale per la sua posizione strategica. Teatro di violente rivolte interne sin dalla sua fondazione (1747), la sua sopravvivenza è stata più volte minacciata da ingerenze straniere (Inghilterra e Russia prima, USA e URSS poi) nel quadro del c.d. "Great Game". Divenuto Stato cuscinetto tra imperi coloniali, il Paese dovette accettare le linee di confine tracciate a tavolino da inglesi e russi (1893). Tra i momenti di rinascita nella storia afgana: l’indipendenza (3 aprile 1919) e la successiva rinuncia di Londra a controllare la politica estera afghana (Trattato di Rawalpindi, 19 agosto), ma anche le idee di modernizzazione che dal 1940 furono diffuse da Radio Kabul (poi Radio Afghanistan). La crisi petrolifera innescò un colpo di stato (17 luglio 1973) che trasformò il Paese da monarchia costituzionale a repubblica presidenziale, e portò poi alla nascita della Repubblica democratica dell'Afghanistan (30 aprile 1978), subito riconosciuta dall’Urss. Per via di dissapori interni al partito comunista, rivolte e indifferenza degli altri Paesi, il governo chiese e ottenne l’intervento dell’Armata Rossa (24-27 dicembre 1979) la quale, dopo anni di guerra contro i mujaheddin, dovette ritirarsi nel febbraio 1989. Gli scontri proseguirono e la guerra civile afghana si concluse con la presa del potere da parte dei Talebani, durata fino all’intervento americano del 2001.
2. Quanti e quali Islam in Afghanistan?
(di Adele Casale)

L’Afghanistan è ufficialmente una repubblica islamica (nel momento in cui si scrive, l'Emirato non è stato ancora ufficialmente proclamato, sebbene alcuni quotidiani parlino dell'Afghanistan come un Emirato) a maggioranza sunnita che segue la scuola giuridica hanafita (perlopiù tollerante) al 70%, con influenze dal movimento Deobandi (non estremo, ma ortodosso) originario indiano del sec. XVIII. Inoltre, al 2020, il 25% della popolazione (c.a 38.928.344) è sciita imamita e ammette la taqiyya, ossia la finzione di aderire alla sfera sunnita per poter proseguire la propria vita cultuale privatamente. Un 4,5% risponde allo sciismo ismaelita; infine, lo 0,5% risulta professare altre religioni (tra cui hindu, ebrei, cristiani, sikh, baha’i). La vita religiosa afgana si caratterizza per le sue molteplici identità etniche e culturali che spesso si sono mischiate, in epoche pre e postcoloniali. Ai molteplici filoni religiosi sono da accostare dottrine e pratiche politiche, inclusi i salafismi (da distinguere dalle pratiche terroristiche), e relativi attori, quali ‘ulamā, mujāhidūn, tālibān. Inoltre, le diversità culturali e religiose vanno contestualizzate tanto a livello nazionale quanto regionale; si pensi, ad esempio, che il Corridoio di Wakhan collega il Paese alla regione cinese dello Xinjiang, dove è concentrata la minoranza etnica musulmana dei Uiguri.
3. Chi sono i talebani e chi i mujaheddin?
(di Adele Casale e Alessandro Vivaldi)

I mujaheddin (mujāhidūn), emersi nei sec. XVIII-XIX, teorizzano un blocco militare, politico, religioso islamico concretizzatosi contro le ingerenze esterne e nella guerra civile scoppiata all’indomani della ritirata sovietica (1989). Tra essi emergono diversi attori come il movimento politico salafita dei talebani (tālibān), studenti in scienze religiose educati secondo i principi tradizionali e puritani deobandi. Supportati sin dagli anni ‘90 da al-Qaida e da foreign fighters, nel 1994 occupano Kandahar e nel 1996 Kabul, instaurando l’Emirato Islamico di Afghanistan e alimentando – fino alla loro destituzione nel 2001 - scontri interni fino ad allora sopiti. Riorganizzatisi in un vero e proprio Stato parallelo a quello ufficiale, i talebani mantengono tradizionalmente rapporti con le aree pashtun del Pakistan, in particolare intorno a Quetta. Si stima che abbiano ricavato circa 1.5 mld $ annui da tassazioni sul traffico di oppio, estrazione mineraria illecita, estorsioni e riscossioni di tasse nei territori controllati e da donazioni dall’estero. Apparentemente, il nuovo corso dei talebani – guidati da Mawlawi Haibatullah Akhundzada, dignitario religioso e studioso di diritto islamico formatosi durante l’invasione sovietica - prevede l’inclusione delle variegate milizie locali e una politica ideologica più moderata e di tutela della popolazione tutta. Tuttavia, Ahmad Masʿūd, figlio del “leone del Panjshir” Aḥmad Shāh Masʿūd, leader della resistenza antitalebana, parrebbe aver cominciato a coordinare la rinascita dell’Alleanza del Nord, con alcuni scontri sul confine della Valle del Panjshir.
4. Come hanno fatto i Talebani a raggiungere Kabul in una settimana?
(di Alessandro Vivaldi)

Con una raffinata strategia ben lontana dall’immagine del jihadista in ciabatte, l’insurgency – non riferibile ai soli studenti coranici – è oggi IL problema delle Low Intensity Operations condotte dalle grandi potenze. L’Afghanistan è la casa dell’insurgency endemica da ben prima dell’invasione sovietica, ma i Talebani di oggi sono – non solo militarmente – diversi da quelli di 20 anni fa: hanno fatto un lavoro certosino di potenziamento delle proprie alleanze, dentro e fuori l’Afghanistan, in attesa del momento giusto in cui scatenare una guerra soprattutto psicologica – iniziata con i green-on-blues, gli attacchi di governativi contro le forze NATO – per dimostrare agli afghani di essere i soli capaci di opporsi allo strapotere corrotto dell’élite di Kabul, per nulla interessata al resto del Paese. Di contro, la strategia “a bolle” della NATO, peggiore di quella delle zastava sovietiche, falliva: insurgents che di notte rientravano nei villaggi persi di giorno, militari occidentali chiusi nelle proprie FOB e afghani che venivano addestrati, sì, ma a cui non si è mai spiegato per cosa combattere. Così, in poco più di una settimana, ufficiali superiori dell’Esercito, governatori, consigli e milizie locali hanno consegnato armi, uomini, mezzi (guarda video), confluendo in quella che più che un’offensiva è stata una parata della vittoria: pochi colpi sparati e carro dei vincitori incredibilmente affollato. I Talebani hanno fatto proprio il principio di Sun Tzu: vincere senza combattere. La NATO, invece, ha appreso ben poco in 20 anni.
Nel video si vede come la resa sia avvenuta senza spargimenti di sangue, e soprattutto lasciando loro tutti i veicoli moderni, armi e munizioni.
5. Quali sono le etnie dell’Afghanistan e quali minoranze sono a rischio?
(di Davide Giacomino)

Per la sua posizione geografica, l’Afghanistan è da sempre un corridoio naturale tra Asia e Medio Oriente, nonché crocevia di popoli e culture differenti (si contano circa 50 etnie). Il gruppo maggioritario è di fede sunnita ed è quello Pashtun (38%). Il secondo gruppo per consistenza numerica è quello dei Tagiki (25%), anch’esso di fede sunnita. Le ampie pianure centrali dello Hazajarat sono invece abitate dagli Hazara, di probabile origine turco-mongolica e di fede sciita. Questo gruppo, che costituisce il 19% della popolazione afghana, è quello più a rischio, oltre alle minoranze degli Uzbeki, dei Beluci e dei Nuristani: già nel sec. XIX, a causa del tentativo dell'emiro Abdur Rahman Khan di costruire uno Stato unitamente sunnita, le comunità Hazara hanno subito discriminazioni e vere e proprie pulizie etniche per motivi religiosi fino alla caduta del regime talebano dopo l’intervento americano del 2001. Oggi il pericolo maggiore è che, con l’instaurazione di un nuovo Emirato islamico, possano riprendere le campagne di pulizia etnica nei confronti degli Hazara: timore già confermato da diversi episodi di violenza avvenuti nei loro confronti durante l’avanzata talebana verso Kabul negli ultimi mesi e dalla distruzione, il 18 agosto 2021, della statua del leader Hazara, Abdul Ali Mazari, a Bamiyan (dove i Talebani distrussero i Buddha giganti nel 2001).
6.1 Quale futuro per i diritti umani nell’Afghanistan dei Talebani?
(di Chiara Mele)

Il popolo afghano ha già subito gravi violazioni dei diritti umani negli scontri finali della guerra civile, a causa dell’incapacità degli attori in campo di gestire la situazione in modo da evitare violenze e abusi, come detto in una nota ufficiale dall’Alto Commissario ONU per i diritti umani Michelle Bachelet. Vi sono forti preoccupazioni per la tutela dei diritti umani fondamentali nell'Afghanistan del prossimo futuro, nonostante le promesse fatte dai Talebani alla comunità internazionale di rispettare i diritti delle donne e di garantire loro l’accesso all’istruzione. Le notizie che pervengono sono contrastanti: da un lato, si riportano perquisizioni di casa in casa in cerca di dipendenti del governo ormai caduto, casi di poliziotti e persone che hanno collaborato con ONG straniere vittime di esecuzioni pubbliche, così come che in tutto il Paese alle donne non è consentito uscire di casa o andare a scuola. Dall'altro, circolano sui media immagini di ragazze che vanno a scuola con l'hijab anziché il burqa o di donne che protestano per rivendicare il mantenimento dei diritti faticosamente conquistati. Per quanto riguarda la libertà di stampa e di opinione, i Talebani in passato non ammettevano dissenso, prendendo di mira anche i giornalisti specialmente se donne; nella loro "nuova versione" i vertici talebani concedono interviste anche alle giornaliste e non impediscono le dirette di Tolonews con conduttrici donne. Sarà necessario attendere per capire se è possibile un regime talebano "moderato" o se quella attuale è solo una fase transitoria che riporterà all'oscurantismo dei diritti delle donne.
6.2 La pratica del Bacha Bazi in un Afghanistan talebano
(di Vittoria Paterno)

Comprendere come la pratica del bacha bazi (usanza afghana in cui i bambini diventano proprietà di ricchi mecenati e sono costretti a vestirsi da donna, divenendo vittime di aggressioni e abusi sessuali) sia collegata all'oppressione dei diritti delle donne e dei minori, alle violazioni dei diritti umani e alla pedofilia, sarà fondamentale in un Afghanistan post-americano. L’opposizione dei talebani a questo fenomeno è uno dei fattori chiave della loro ascesa dopo aver messo al bando l’usanza negli anni '90. Rovesciato il loro regime nel 2001, la pratica ha subito una rinascita nonostante gli sforzi per debellarla, rimasti infruttuosi a causa della corruzione del governo e della riluttanza americana a impegnarsi negli affari interni afghani. Nel gennaio 2017 il bacha bazi è stato ufficialmente definito reato, ma i talebani avevano già iniziato a risolvere controversie locali salvando i minori abusati e cercando di distinguersi da coloro che partecipavano al fenomeno. Tutto ciò si pone in contraddizione con il quinto rapporto del 16 luglio 2021 del Segretario Generale dell’ONU sui minori in Afghanistan e sulla situazione dei bambini colpiti dal conflitto armato. Su oltre 6.000 gravi violazioni contro i minori durante il periodo di riferimento del rapporto (1° gennaio 2019 - 31 dicembre 2020), l’attribuzione di almeno metà di esse è stata attribuita ai talebani.
7. Dobbiamo aspettarci una nuova crisi migratoria e un aumento dei rifugiati?
(di Luigi Limone)

L’esodo di massa di rifugiati in fuga all’Afghanistan potrebbe scatenare una nuova crisi migratoria, simile a quella del 2015-16 come conseguenza della guerra in Siria. L’UNHCR stima che 400.000 persone siano state costrette a lasciare l’Afghanistan dall’inizio del 2021 e che, nelle ultime settimane, si siano registrate tra le 20.000 e le 30.000 partenze alla settimana. L’UNHCR ha emesso un avviso di non rimpatrio ma, al contempo, l’Europa è preoccupata che il numero di persone in cerca di protezione internazionale aumenti. La rotta migratoria più utilizzata è quella che passa attraverso l’Iran (tappa talvolta preceduta da un passaggio in Pakistan) e poi la Turchia (che, come la Grecia, sta costruendo già un muro al confine), per raggiungere le isole greche e continuare verso altri Stati europei. Lungo questa rotta sono numerosi i contrabbandieri che facilitano l’attraversamento illegale delle frontiere in cambio di denaro e con rischi di sfruttamento e abusi per i migranti. Al contempo, iniziano ad aprirsi rotte alternative da monitorare nei prossimi mesi: parrebbe ad esempio che alcuni migranti afgani hanno iniziato ad arrivare in Lituania attraverso prima l’Ucraina e poi la Bielorussia. Vilnius ha accusato Minsk di organizzare passaggi di frontiera illeciti come parte di una "guerra ibrida" contro l'UE.
8. Quali sono gli interessi delle potenze confinanti?
(di Giusy Musarò)

Per comprendere gli equilibri regionali, è necessario considerare dinamiche passate e presenti. Il Pakistan, storicamente a favore dei Talebani cui ha fornito risorse finanziarie e logistiche fin dagli anni ’90, non si è espresso contro i raduni pro-talebani nel Paese. Al contempo, Islamabad controbilancia i rischi potenziali (ad es. crescente flusso di rifugiati e rinascita di gruppi militanti locali antigovernativi, come i Tehrike Taliban Pakistan) con la prospettiva di avere a Kabul un governo che limiti sia l’influenza indiana sia le mire nazionalistiche Pashtun lungo la Durand Line (fissata nel 1893). La Cina, che presta una particolare attenzione ai vicini, condivide col Pakistan la rivalità nei confronti dell’India (si veda la questione del Kashmir); tuttavia, a incentivare il processo diplomatico avviato nel 2011 con i Talebani sono assicurare il successo della Nuova Via della Seta ed evitare che Kabul sia base logistica per separatisti uiguri e Movimento Islamico del Turkestan Orientale (ETIM), ma anche gli idrocarburi e minerali rari presenti sul suolo afghano (valore stimato: 3 mld $). La posizione dell’Iran, che aveva inizialmente appoggiato la lotta anti-talebana negli anni ’90 e poi nel 2001, rimane ambigua, ma privilegia il mantenimento di relazioni commerciali e diplomatiche a garanzia della sicurezza regionale e di un maggiore controllo sia sulle migrazioni di massa sia sulle spinte indipendentistiche del Baluchistan nel sud-est del Paese.
9. Gli interessi di Russia e Stati Uniti
(di Laura Santilli)

Dopo venti anni di conflitto - sviluppatosi in due tranche temporali: fino al dicembre 2014, con l’operazione Enduring Freedom (dall’ottobre 2001) e nell’ambito della missione ISAF a guida NATO (dall’agosto 2003); dal 1° gennaio 2015 ad oggi, la NATO ha attivato la missione Resolute Support e, contestualmente, gli USA hanno avviato la missione Operation Freedom's Sentinel – Washington ha portato a termine il ritiro delle truppe militari dall’Afghanistan con un ampio anticipo rispetto alla data prevista: l’11 settembre 2021 (si noti che la Francia – nel dicembre 2012 - e Canada – nel marzo 2014 - avevano già ritirato le proprie truppe). Nel suo discorso, il presidente Biden ha ribadito che la scelta di abbandonare l’Afghanistan è stata giusta e dovuta, visto il trascinarsi di una guerra che, a suo dire, è stata condotta dagli USA soltanto per sconfiggere il terrorismo e non per "importare la democrazia" o per obiettivi di nation-building. Salvo un nuovo attacco alla loro sicurezza da parte dei talebani, quindi, la potenza militare statunitense non tornerà in Afghanistan e, in fondo, una Kabul instabile potrebbe tornare utile in chiave anticinese e antirussa. Infatti, il ritorno dei Talebani potrebbe creare diversi problemi di stabilità nella regione, strategicamente rilevante anche per la sicurezza nazionale dellaFederazione Russa. Questo è uno dei motivi che ha indotto Mosca a mantenere la propria ambasciata e a non perdere, quindi, un dialogo diplomatico con il nuovo governo di Kabul. Tuttavia, è fondamentale per il contenimento del potere talebano che la Russia conservi soprattutto il dialogo con le autorità pakistane.
10. Terrorismo islamico: quali minacce?
(di Eleonora Corsale)

I talebani hanno colto il vuoto lasciato da un Occidente ormai proiettato alla lotta contro la pandemia. L’installazione di un emirato islamico in Afghanistan a guida talebana riapre ferite mai chiuse e acutizza rischi di sicurezza internazionale sempre presenti. Con la presa del potere da parte dei talebani il jihadismo ha di nuovo la sua “base” e risorse. Al-Qaeda è ancora presente in almeno 15 province afghane e nel subcontinente indiano agisce con il benestare talebano. Cellule dormienti dell’ISIS, in scontro aperto con al-Qaeda, sono attive intorno a Kabul, Badakhstan e Kunduz allo scopo di riunire sotto la propria egida quanti non appoggiano l’accordo di pacificazione fra Stati Uniti e talebani. Gli scenari che si prospettano non sono confortanti e l’Afghanistan rischia di trasformarsi nuovamente nella Woodstock del Medio Oriente: un polo di aggregazione del fondamentalismo islamico mondiale. Potenziali jihadisti potrebbero arrivare dall’Africa, soprattutto dall’instabile Sahel, e dalla stessa Europa per essere addestrati e poi fare ritorno in patria dove mettere in pratica quanto appreso.
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