Vietnam: la nuova Cina?
- 28 set 2020
- Tempo di lettura: 11 min
Aggiornamento: 14 nov 2020
(di Nicolò Rizzo)

1. Introduzione
Alla fine della Guerra Fredda, mentre Francis Fukuyama proclamava la “fine della storia” con la definitiva vittoria del blocco capitalista e il disgregamento di quello comunista, non era difficile presagire il prossimo crollo delle altre democrazie popolari.
Il contesto interno e geopolitico di molte di esse sia in Europa che in Asia che nel resto del mondo appariva particolarmente fragile alla fine degli anni Ottanta. Erano proprio questi i giorni in cui a Pechino scoppiava la rivolta di piazza Tian’anmen, evento chiave che per molti confermava la fine ormai prossima del sistema comunista cinese, e che invece segnerà un graduale ma deciso rafforzamento della leadership comunista all’interno della Repubblica popolare cinese (RPC) attraverso l’adozione di varie riforme, tra cui quella dell’istruzione in senso nazionalista.
Nello stesso periodo, il Vietnam restava uno Stato povero, con un reddito pro-capite di appena 917 dollari a parità di poteri d’acquisto, con un’economia disastrata dai lunghi conflitti che hanno afflitto il Paese per quasi tutto il XX secolo e una forte dipendenza dall’aiuto sovietico.
Eppure, stupisce constatare che proprio nello stesso momento in cui vivevano tragiche crisi, questi due Paesi sono stati in grado di adottare riforme che hanno sfidato l’idea diffusa nella scienza politica che all’apertura economica corrisponde necessariamente un’evoluzione politica in senso democratico e un’accresciuta tutela dei diritti umani civili e politici. Infatti, proprio Vietnam e RPC rappresentano gli unici due esempi di democrazie popolari che sono riuscite a mantenere pressoché inalterato il proprio sistema politico pur liberalizzando gradualmente la loro economia. Altri Paesi comunisti non sono riusciti in tale impresa o non ci hanno nemmeno tentato: ad esempio, la Corea del Nord mantiene tutt’oggi un ferreo controllo sia sulla vita politica che economica del Paese. Inoltre, la crescita del Vietnam è stata tanto robusta che negli ultimi anni, soprattutto in seguito allo scoppio della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti, molti si chiedono se il Vietnam non sarà in grado di sostituire la Cina come “fabbrica del mondo”.
Per apprezzare se quest’ipotesi sia fondata o meno, si presenterà l’evoluzione della politica vietnamita dall’adozione delle riforme Doi Moi, per poi concentrare l’attenzione sulla situazione odierna e sulle determinanti di un simile successo. Si concluderà con un’analisi statica per esaminare le fragilità dell’economia vietnamita, e con un’analisi dinamica che consideri le interazioni strategiche tra l’economia vietnamita e quelle statunitense e cinese.
2. Il Vietnam in transizione: le riforme Doi Moi
Quando nel 1975 il Partito Comunista del Vietnam (PCV) riuscì a riunificare il Paese, i leader sapevano che ancora molto restava da fare. Già nel 1948, Ho Chi Minh, l’eroe della lotta per l’indipendenza prima contro i Francesi, poi contro i Giapponesi e ancora contro i Francesi e gli Statunitensi, sottolineava la necessità di vincere le battaglie contro “la povertà, l’analfabetismo e gli invasori”.
Battuti gli invasori, per ridurre la povertà e l’analfabetismo, il IV Congresso del PCV del 1975, adottò il primo piano quinquennale (1975-1980). Esso, fedele alla dottrina comunista ortodossa, prevedeva la collettivizzazione delle terre, la nazionalizzazione di tutte le produzioni e la priorità dell’industria pesante. Tali misure però non fruttarono i risultati sperati. Così, dopo un altro piano quinquennale fallimentare, la leadership fu costretta a profonde riflessioni che portarono il VI Congresso del PCV del 1986 ad adottare le “riforme Doi Moi”, ossia del “rinnovamento”. Queste implicavano il definitivo abbandono della precedente strategia in favore di un approccio simile a quello promosso da Deng Xiaoping nella RPC sin dal terzo Plenum dell’undicesimo Congresso Partito comunista cinese del 1978: tolleranza di piccole entità economiche private, focus della produzione industriale su beni di consumo e produzione leggera, apertura al commercio internazionale e agli investimenti diretti esteri, anche da parte dell’Occidente. In altre parole, il Vietnam passava a un’economia socialista di mercato.[1]
Simili eventi non possono non avere ripercussioni politiche di rilievo. Infatti, per attrarre investimenti diretti esteri (IDE) dai Paesi del blocco capitalista bisognava cooperare con Paesi quali gli Stati Uniti, con cui fino a 13 anni prima si era combattuta una guerra sanguinosa. Inoltre, era necessario integrare il Vietnam nell’economia e nella politica internazionale, così da superare la logica binaria dei blocchi, emanciparsi dalla dipendenza da Mosca e uscire dall’isolamento in cui il Paese era piombato a causa dell’occupazione della Cambogia.[2]
Con gli accordi di pace di Parigi del 1991, culmine del processo di pace in Cambogia, non solo si normalizzavano le relazioni Hanoi-Phnom Penh, ma altresì si creavano le precondizioni per la promozione delle relazioni del Vietnam con la RPC e con le altre Potenze regionali e occidentali. Da questo momento in poi, il Paese poteva finalmente diversificare le sue relazioni diplomatiche non appiattendosi più sulle posizioni di Mosca, proprio in un momento in cui per quest’ultima si avviava un periodo di transizione e di crisi.
Di pari passo con il miglioramento del contesto politico-diplomatico, l’economia poteva davvero decollare e attrarre IDE. Già da novembre 1991, il Vietnam e la RPC ristabilirono relazioni diplomatiche e riaprirono le frontiere ai commerci. Nel 1995 il Vietnam divenne membro dell’Associazione dei paesi dell’Asia sudorientale (ASEAN), e soprattutto nel 2007 divenne finalmente membro dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), due mosse che consentirono una forte riduzione delle barriere al commercio.
3. Il Vietnam odierno
Dagli anni Novanta, in seguito alle misure di politica estera e all’adozione del modello di economia socialista di mercato, il Vietnam ha conseguito dei risultati strabilianti, confermando e rafforzando il suo ruolo come attore di peso nella regione del Sudest asiatico. Tali risultati sono tanto più rimarchevoli se si pensa che sono stati raggiunti grazie a un pesante intervento del governo nell’economia, in contrasto con i principi del Washington consensus raccomandati dal Fondo Monetario Internazionale, che pure ha assistito il Paese nelle riforme.
Secondo i dati della Banca Mondiale, negli anni Novanta l’economia vietnamita ha registrato un tasso di crescita medio del PIL pro-capite del 7% l’anno tra il 1990 e il 1999, del 5,6% tra il 2000 e il 2009 e del 5,2% tra il 2010 e il 2019. In valori assoluti, il PIL pro-capite a parità di potere d’acquisto è passato dagli appena 917 dollari del 1990 agli 8373 dollari del 2019, una variazione di più dell’800% in appena 20 anni.


Passando dal dato pro-capite a quello totale, si nota invece come il PIL sia passato da $6,4 miliardi a $261,9 miliardi, aumentando di un fattore pari a 43. Inoltre, nel 2019 Hanoi ha registrato un tasso di crescita del PIL pari al 7%, il secondo della regione, subito dopo la Cambogia (7,1%) e davanti alla RPC (6,1%) per il secondo anno di fila.

Un simile dinamismo economico ha stimolato la curiosità di vari economisti e politologi, che ne hanno indagato le cause fornendo varie spiegazioni. Nessuna di esse può spiegare singolarmente perché il Vietnam sia cresciuto a un ritmo tanto sostenuto. Nondimeno, ciascuna coglie varie determinanti di tale crescita:
1. Vantaggio del late developer, che riprende la teoria di Gerschenkron secondo la quale gli Stati dalle economie meno sviluppate hanno la possibilità di crescere più velocemente poiché possono imparare dall’esperienza delle economie più sviluppate e sfruttare le loro tecnologie per saltare alcuni stadi di crescita e ottimizzare l’uso delle risorse[3];
2. Valori confuciani, in virtù dei quali i Paesi già parte del sistema sino-centrico (Giappone, Corea del Sud, RPC e Vietnam) attribuiscono particolare importanza alla formazione e condividono istituzioni (tradizioni, leggi scritte e non scritte che influenzano le scelte economiche) particolarmente adatte alla stabilità e quindi alla crescita economica[4];
3. Gradualismo, in quanto economia in transizione, il Vietnam ha avuto la possibilità di gestire al meglio la propria apertura al commercio internazionale, a differenza delle economie dell’Europa orientale e della Russia, dove il sistema socialista è collassato costringendo i governi ad adottare misure drastiche che nel breve tempo hanno comportato recessione e un’elevata disoccupazione;
4. Attrazione di IDE, favoriti da bassi salari e da una legislazione vantaggiosa;
5. Dati macroeconomici solidi: bassa inflazione (2,8% nel 2019), tasso di cambio stabile tra Dong vietnamita e dollaro, basso tasso di disoccupazione (2% nel 2019);
6. Partecipazione a numerosi accordi commerciali, che garantiscono al Paese un notevole grado d’integrazione nell’economia mondiale e rafforzano le aspettative degli investitori nell’ulteriore apertura del Vietnam. L’ultimo accordo commerciale di rilievo in ordine cronologico è l’accordo di libero scambio con l’Unione Europea, in vigore dal 31 luglio 2020;
7. Contesto politico interno e regionale stabile, la fine dei conflitti regionali in Indocina ha contribuito alla stabilità e alla prosperità non solo del Vietnam, ma anche degli altri Paesi della regione tra cui Cambogia e Laos.
4. Il Vietnam supererà la Cina?
Ai fattori appena elencati, parrebbe essersene aggiunto un altro: lo scoppio della guerra commerciale tra Stati Uniti e RPC nel 2018. In seguito all’incremento dei dazi sui prodotti cinesi, il volume degli scambi tra gli Stati Uniti e il Vietnam ha subito un’impennata, passando da $58834,2 miliardi nel 2018 a $77490,4 miliardi nel 2019.
La pandemia di COVID-19 ha poi ulteriormente inasprito la rivalità sino-americana e rafforzato le voci di un decoupling tra Pechino e Washington e di una nuova delocalizzazione delle compagnie occidentali e giapponesi, questa volta dalla RPC verso il Vietnam. Non è raro quindi leggere di articoli che elencano il Vietnam tra i vincitori della guerra commerciale lanciata dall’amministrazione Trump al Dragone; tuttavia, la tigre vietnamita ha dei limiti strutturali non indifferenti, che le rendono difficile sostituirsi alla RPC.
4.1. I limiti strutturali dell’economia vietnamita
La differenza più evidente tra le economie di Pechino e di Hanoi è senz’altro la scala. Il Vietnam semplicemente non ha le dimensioni della RPC: la forza lavoro è pari al 7% di quella cinese. Di conseguenza, il Vietnam non dispone di un numero tanto elevato di lavoratori da accogliere le compagnie straniere che possiedono impianti nella RPC. Anche le dimensioni del mercato di sbocco sono rilevanti: i consumatori vietnamiti sono “appena” 96 milioni, a fronte di 1,3 miliardi oltre-muraglia, e dispongono di un reddito pro-capite ancora basso.
Al di là di problemi quantitativi, è impossibile ignorare i problemi qualitativi della manodopera di Hanoi, che ad oggi dispone tutto sommato di poco capitale umano e proprio per tale ragione attrae IDE soprattutto in settori ad alta intensità di lavoro che sono però meno redditivi. Il problema ovviamente non è unicamente legato alla redditività, ma ha una portata più ampia. Infatti, man mano che il salario dei lavoratori cresce, anche i prezzi dei beni prodotti nel Paese cresceranno; sarà quindi presto necessario per le autorità vietnamite elaborare una strategia che consenta al Paese di piazzarsi nella parte alta della catena globale del valore, specializzandosi in settori e ad alta intensità di capitale. Solo così Hanoi riuscirà a competere con le altre economie a lungo termine, data la sua relativamente elevata apertura al commercio internazionale e la partecipazione a diversi accordi di libero scambio.
4.2. Le fragilità dell’economia del Vietnam: le relazioni con Washington
All’analisi statica bisogna aggiungere quella dinamica, in quanto la prima tiene unicamente conto della struttura dell’economia vietnamita e assume che gli altri Paesi non modifichino il loro comportamento: un’ipotesi difficilmente verificata nella realtà. In particolare, occorre tener conto dell’interazione dell’economia di Hanoi quantomeno con le prime 2 economie mondiali: gli Stati Uniti e la RPC.
Gli Stati Uniti rappresentano il primo mercato di sbocco per l’export vietnamita, ma il deficit della bilancia commerciale di Washington nei confronti di Hanoi è in costante aumento sin dal 1997. Nel 2019 ha raggiunto la cifra record di 55,8 miliardi di dollari, dato che ha già attirato l’attenzione del Presidente Trump. Hanoi a maggio 2019 è stata inserita in una lista di Paesi sospettati di manipolare il cambio dal dipartimento del Tesoro statunitense, mentre in occasione del G20 di Osaka di giugno 2020 il Presidente Trump ha definito il Vietnam “the single worst abuser of everybody” minacciando pesanti dazi. A tali minacce il governo di Hanoi ha risposto in maniera conciliante, firmando con Washington un memorandum of understanding sulle importazioni di gas naturale liquefatto e consentendo maggiori investimenti nel Paese.
Tuttavia, non è escluso che tra i due Paesi non possano nascere attriti di natura extra-economica. Infatti, Washington continua a nutrire riserve verso la situazione dei diritti umani in Vietnam, tanto che nel 2019 il Congresso ha votato il “Vietnam Human Rights Act”, che impone la conduzione di una politica commerciale che persegua l’espansione dell’economia dell’informazione in Vietnam. Il legame tra commercio e politica è in questo caso particolarmente evidente.
Tuttavia, la storia nella geopolitica ha un peso rilevante. Soprattutto, visto che la vittoria nella guerra contro gli Stati Uniti costituisce parte dell’identità e dell’orgoglio nazionale del Vietnam, è probabile che Hanoi cercherà di non mostrarsi eccessivamente accondiscendente alle richieste di Washington qualora esse rischino di minare l’interesse nazionale. Ciò pone il dilemma di come garantirsi il pieno appoggio degli Stati Uniti in campo strategico per contenere le mire della RPC nel Mar cinese meridionale, evitando che eventuali divergenze in campo commerciale si ripercuotano negativamente in materia di difesa.
4.3. Le fragilità dell’economia del Vietnam: le relazioni con Pechino
Malgrado l’affinità ideologica, esistono molteplici ragioni geopolitiche che potrebbero spingere la Repubblica popolare a ostacolare la rapida crescita vietnamita, qualora di essa non beneficiasse altrettanto l’economia cinese. Innanzitutto, non è interesse di Pechino adombrare la possibilità che anche una sola nazione possa beneficiare della guerra commerciale sino-americana. La diplomazia cinese è sempre stata chiara e coerente nell’affermare che “la cooperazione tra Pechino e Washington apporta benefici al mondo”: l’esistenza di eccezioni indebolirebbe il discorso del governo cinese.
Oltretutto, la Cina ha a disposizione un ventaglio di leve economiche per ostacolare la crescita del Paese. Ad esempio, il Vietnam è fortemente dipendente dall’afflusso di materie prime e semilavorati dalla RPC, importati per essere lavorati ed esportati come prodotti finiti. Anche il turismo in provenienza d’oltre-muraglia garantisce imponenti entrate ad Hanoi: una diminuzione dei flussi turistici danneggerebbe sicuramente l’economia vietnamita.
Certamente, l’appartenenza all’ASEAN potrebbe teoricamente accrescere il peso negoziale del Paese davanti al Dragone cinese. Tuttavia, sussistono due ostacoli. Da un lato, l’ASEAN non è né ha mai rappresentato un blocco politico compatto, tanto più dopo il suo allargamento post-Guerra fredda, che ne ha mutato la natura di baluardo anti-comunista nella regione. Non a caso, il Vietnam, Stato socialista, ne è oggi membro.
A ciò si aggiunga la sapiente opera diplomatica cinese. Se Paesi ASEAN condividono apprensioni circa l’assertività di Pechino nel Mar cinese meridionale, è però innegabile che iniziative quali la Belt and Road initiative giochino un ruolo chiave sia nel creare faglie interne all’ASEAN, sia nell’avvicinare alcuni membri dell’organizzazione (soprattutto Laos e Cambogia) verso la RPC. La conseguenza è che l’ASEAN incontra sempre maggiori difficoltà nell’adottare una posizione comune vis-à-vis Pechino, minando l’utilità della sua membership quale carta negoziale per gli Stati regionali.
5. Conclusione
Mentre la pandemia imperversa continuando a mietere vittime in tutto il mondo, l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale continua ad essere rivolta all’Asia Orientale e Sudorientale, dove i Paesi sembrano aver contenuto in maniera particolarmente efficace la pandemia. Tra questi, il Vietnam ha stupito non solo per la sua efficienza nel controllare la pandemia, ma anche per la capacità della sua economia di continuare ad esportare e ad attrarre IDE.
Tuttavia, dall’analisi statica si evince che sussistono delle debolezze strutturali dell’economia vietnamita che, se combinate con l’analisi dinamica delle interazioni del Paese, confermano la conclusione che per il Vietnam è impossibile sostituire la RPC nella global supply chain. Le conquiste economiche del Paese sono ancora fragili e i leader di Hanoi sono chiamati a trovare il giusto bilanciamento tra le esigenze di politica economica e commerciale, che richiedono un rafforzamento della cooperazione tra Paesi, e le esigenze politiche e geopolitiche che non necessariamente spingono in tale direzione. L’identità nazionale vietnamita resta non solo fiera della vittoria contro gli Stati Uniti, ma anche guardinga contro l’assertività dalla RPC nel Mar cinese meridionale, che risveglia memorie di un’antica dominazione, da ultimo in epoca Sui e Tang (602-907), e mette in dubbio la solidarietà tra i due partiti comunisti.
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Note
[1] THAYER, Carlyle A., Vietnam’s Sixth Party Congress: An Overview, Contemporary Southeast Asia, vol.9, n.1, 1987, pp.12-22 [2] THAYER, Carlyle A., The Evolution of Vietnamese Diplomacy Under Doi Moi, 1986-2016, in Hong Hiep LE, Anton TSVETOV (a cura di), “Vietnam's Foreign Policy under Doi Moi”, Singapore, pp.23-46, 2018
[3] G ERSCHENKRON Alexander, Economic Backwardness in Historical Perspective, a book of essays, Cambridge, Massachusettes, Belknap Press of Harvard University Press, 1962 [4] Nawrot, Katarzyna Anna, Does Confucianism promote cooperation and integration in East Asia?, International Communication of Chinese Culture, vol. 7, pp.1-30, 2020
Bibliografia
1. GERSCHENKRON Alexander, Economic Backwardness in Historical Perspective, a book of essays, Cambridge, Massachusettes, Belknap Press of Harvard University Press, 1962
2. FUKUYAMA Francis, The End of History and the Last Man, New York, Free Press, 2006
3. NAWROT Katarzyna Anna, Does Confucianism promote cooperation and integration in East Asia?, International Communication of Chinese Culture, vol. 7, pp.1-30, 2020
4. THAYER, Carlyle A., Vietnam’s Sixth Party Congress: An Overview, Contemporary Southeast Asia, vol.9, n.1, pp.12-22, 1987
5. THAYER, Carlyle A., The Evolution of Vietnamese Diplomacy Under Doi Moi, 1986-2016, in Hong Hiep LE, Anton TSVETOV (a cura di), Vietnam's Foreign Policy under Doi Moi, Singapore, pp.23-46, 2018
Sitografia
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