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USA contro Cina: dalla guerra commerciale al disaccoppiamento economico

Aggiornamento: 13 apr 2022

Fonte: https://news.usc.edu/157113/us-china-trade-war-impact/

1. Introduzione: cos’è la guerra commerciale


Il termine “dazio”, che sembrava scomparso dal nostro vocabolario, è tornato in auge nel 2018 in seguito alla guerra commerciale intrapresa dall’allora Presidente americano Donald Trump contro la Cina.

Andando con ordine, vediamo cosa si intende quando si parla di guerra commerciale. Si tratta di una politica economica che può avere diversi obiettivi, tra cui il principale è la riduzione del disavanzo della bilancia commerciale; si cerca cioè di diminuire il valore complessivo delle importazioni a fronte delle esportazioni. Infatti, sebbene il disavanzo della bilancia commerciale di un Paese indichi che i residenti hanno accesso a una maggiore varietà di beni che si possono permettere di comprare, a lungo andare può causare una riduzione dell’attività delle aziende locali, che a sua volta si traduce nella perdita di competitività e posti di lavoro.


Ad ogni modo la solidità economica di uno Stato non si misura esclusivamente con la bilancia commerciale, che è una voce nella bilancia dei pagamenti: se quest’ultima è in negativo, denota che lo Stato si sta indebitando con autorità monetarie estere e questa situazione prolungata nel tempo può causare un aumento del deficit con l’estero difficile da ridurre.


Per mantenere la bilancia commerciale in equilibrio gli Stati hanno a loro disposizione, tra le altre, una serie di misure a carattere tariffario e non tariffario. Quelle attualmente più diffuse sono di tipo non tariffario, come ad esempio le quote di importazione, cioè una limitazione quantitativa all’importazione di un determinato bene. Se la domanda di quel bene rimarrà immutata, non potendo essere soddisfatta dall’importazione, il valore del bene aumenterà, stimolando la produzione di un bene sostitutivo nazionale[1].


Quando invece si applicano misure di carattere tariffario, allora parliamo di dazi, che funzionano sostanzialmente applicando una maggiorazione al prezzo di un bene importato. L’idea che sta dietro al dazio è che il bene interessato, divenendo più costoso, perderà competitività nel mercato interno rispetto ai beni sostitutivi prodotti a livello nazionale.


In entrambi i casi si può parlare di “protezionismo”, che espone chi lo adotta come leitmotiv della propria politica commerciale alle rappresaglie dei Paesi esteri danneggiati nella loro capacità esportativa. Se ciò si verificasse ne nascerebbe una guerra commerciale che, nel caso di forte interdipendenza delle economie dei Paesi coinvolti, potrebbe danneggiarli entrambi, con una drastica riduzione del volume degli scambi.


2. Quando la minaccia commerciale era il Giappone


Prima di addentrarci nell’analisi del caso sino-americano, ancora in fieri e il cui esito rimane incerto, può aiutarci a fare chiarezza guardare a una guerra commerciale della storia recente. Tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta la seconda potenza economica a livello mondiale era il Giappone. Il Paese, grazie a una politica statale di sostegno alle aziende, aveva sviluppato una filiera industriale di primo livello, contribuendo alla nascita dei grandi conglomerati denominati Zaibatsu, di cui la Toyota e la Toshiba sono un esempio.


La ritrovata potenza economica e industriale aveva portato il Giappone a diventare il più grande fornitore di semiconduttori, tanto da allarmare gli Stati Uniti. Da un lato la bilancia commerciale americana aveva accumulato un notevole disavanzo, dall’altro molti settori industriali finirono per essere dipendenti dalle forniture giapponesi. Lo squilibrio non era quindi preoccupante solo sotto il profilo economico, ma anche sotto quello strategico.


L’allora Presidente degli Stati Uniti Reagan, che considerava il Giappone un nemico da un punto di vista economico, accusò le aziende giapponesi non solo di dumping (ossia la vendita all'estero di prodotti a prezzi inferiori rispetto a quelli praticati sul mercato interno), ma anche di furto di proprietà intellettuale.

Nel luglio 1986 l’amministrazione americana, per convincere Tokyo a ridurre il volume delle loro esportazioni a livello globale, minacciò l’imposizione di dazi nei confronti dei prodotti giapponesi. A fronte delle pressioni statunitensi, il governo giapponese fu costretto ad accettare di siglare il Semiconductor trade agreement. L’accordo impegnava le aziende giapponesi a ridurre volontariamente il volume delle proprie esportazioni sul mercato americano, mentre ritagliava un 20% di quello giapponese ai semiconduttori prodotti negli Stati Uniti.


Non essendo stato previsto alcun modo per facilitare la realizzazione di tale accordo, le compagnie giapponesi si dimostrarono piuttosto restie a tagliare le loro esportazioni, così come a sostituire le loro forniture con quelle provenienti da oltre Pacifico. Frustrata dalla mancanza di progressi, l’amministrazione americana decise di procedere nell’aprile del 1987 con l’imposizione di dazi del 100% su merci pari al valore di 300 milioni di dollari. Considerando che la totalità delle importazioni americane dal Giappone ammontava a 8,1 miliardi di dollari, i dazi interessarono solo lo 0,4%. Tuttavia la misura fu sufficiente a stimolare il governo giapponese ad agire sulle proprie aziende. Le tariffe vennero ridotte già nel novembre 1987 e vennero del tutto rimosse nel 1991, man mano che gli obiettivi dell’accordo venivano raggiunti[2].

Valore delle importazioni americane di semiconduttori. Fonte: How the United States Marched the Semiconductor Industry into Its Trade War with China, Chad P. Bown, p. 6.

Alla luce dei fatti sin qui esaminati, si possono fare alcune osservazioni. In primis è importante evidenziare che lo scopo di ridurre il deficit della bilancia commerciale nei confronti del Giappone - nonostante la svalutazione programmata del dollaro avesse dato un’ulteriore spinta in quella direzione - non venne centrato. Il disavanzo di bilancia commerciale con il Paese del Sol Levante - che non riguardava solo il mercato dei semiconduttori - non vide particolari miglioramenti, rimanendo più o meno ai livelli pre accordo. Inoltre, per effetto delle restrizioni giapponesi, il mercato americano rimase a corto di chip, lasciando spazio a nuovi attori, come la Corea del Sud e Taiwan, che colsero l’opportunità per sostenere la loro industria dei semiconduttori. Tutt’oggi le due tigri asiatiche, assieme alla Cina, sono i maggiori esportatori di semiconduttori negli Stati Uniti.


Benché le misure prese nel caso appena visto non portarono al raggiungimento degli obiettivi desiderati, l’uso del dazio come strumento di pressione nei confronti di un governo estero dimostrò tutta la sua efficacia, avendo spinto il Giappone ad accettare accordi piuttosto svantaggiosi.


3. La guerra commerciale contro la Cina: trade diversion e disaccoppiamento economico


In tempi più recenti, il posto del Giappone è stato preso dalla Cina, verso cui il deficit commerciale degli Stati Uniti nel 2018 ammontava a circa 418 miliardi di dollari, sui 570 miliardi complessivi. Questo squilibrio è stato spiegato dall’amministrazione Trump appoggiandosi a un’indagine iniziata nel 2017 dal Dipartimento del Commercio americano, che evidenziava presunte pratiche scorrette da parte del governo cinese. Nello specifico si parlava di massicci aiuti di Stato alle aziende del colosso asiatico che, grazie anche al costo della manodopera tuttora piuttosto basso rispetto agli Stati Uniti, permettevano ai loro prodotti di avere sul mercato americano prezzi fortemente competitivi.


Alla luce di ciò, nel marzo 2018 il Presidente Trump, ricorrendo alla Section 301 del Trade Act del 1974, ha imposto dazi su oltre 1300 categorie di prodotti importati dalla Cina. Tale misura si andava ad aggiungere ai dazi su acciaio e alluminio (rispettivamente del 25% e 10%) annunciati a inizio marzo. I primi di aprile giunse la risposta cinese, con l’imposizione di dazi su 128 prodotti di importazione americana.


La politica commerciale restrittiva avviata da Trump e - benché in modo più soft - confermata da Biden, ha dimostrato la sua efficacia nei confronti della Cina, verso cui il deficit americano è calato tra il 2019 e il 2020 in modo sensibile, come è possibile vedere nel grafico qui sotto.

Grafico costruito utilizzando dati estrapolati da United States Census Bureau.

Al contempo, le restrizioni alle importazioni cinesi hanno spinto l’economia americana a orientarsi verso altri mercati per sopperire alla mancanza di approvvigionamenti. Trattasi di un meccanismo definito trade diversion (deviazione commerciale). Tale fenomeno si verifica quando, non potendo acquistare una determinata merce dal Paese A e mancando un bene sostitutivo competitivo prodotto internamente, gli attori economici nazionali lo acquistano dal Paese B, C, D, ecc.


Questo è quanto si è verificato nel caso della guerra commerciale in esame. A beneficiarne sono stati Paesi considerati simili alla Cina dal punto di vista della specializzazione produttiva, o che fanno parte di accordi di scambio bilaterali o multilaterali, come Messico e Vietnam. La trade diversion, comunque, non ha prodotto una diminuzione del deficit complessivo della bilancia commerciale statunitense. Questa, infatti, si è ridotta nei confronti della Cina, ma - come è possibile vedere nel grafico di seguito - è aumentata notevolmente nei confronti del resto del mondo. Pertanto, si può dire che l’auspicata diminuzione del deficit commerciale globale USA non è stata raggiunta.

Grafico costruito utilizzando dati estrapolati da United States Census Bureau.

La guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti ha anche contribuito a un sempre più marcato disaccoppiamento tra le due economie. Dal 1990 al 2016 Washington e Pechino, pur lavorando per il proprio benessere, hanno contribuito a quello dell’altro. Basti pensare al fatto che il surplus di bilancia commerciale cinese serviva a finanziare il debito americano, instaurando un ciclo in cui i due Paesi si sostenevano a vicenda.


A partire dalla svolta inaugurata da Trump, Cina e USA sembrano aver preso due strade diverse. Lo dimostra il quinto Plenum del XIX Comitato centrale del Partito comunista cinese, tenutosi nell’ottobre 2020, in cui è stato presentato il programma Vision 2035, che porrà le basi per il definitivo disaccoppiamento dell’economia cinese da quella americana. La reazione cinese, infatti, non si è limitata a rispondere ai dazi americani, ma ha visto l’adozione di una politica volta a promuovere la formazione di un nuovo modello di sviluppo in cui il grande ciclo domestico - ossia il mercato interno - è il corpo principale. In sostanza la Cina si appresta a diventare da Paese di produzione a Paese anche di consumo.

Si può parlare in tal caso di “doppia circolazione”, con cui il Partito Comunista Cinese non intende rinunciare alla circolazione internazionale delle merci - non dobbiamo dimenticare l’iniziativa della Belt and Road che mira a potenziare gli scambi con l’Europa - ma vi affianca un rafforzato mercato interno. Questa politica ha lo scopo di offrire ai produttori cinesi un riparo nel caso in cui una guerra commerciale, come quella in atto, possa ridurre i mercati di sbocco per i loro prodotti.


4. Conclusioni


La guerra commerciale iniziata nel 2018 ha visto gli USA misurarsi con un avversario diverso dal Giappone degli anni Ottanta e Novanta. La Cina, infatti, è già ad oggi un grande mercato in grado di alleviare lo stress dovuto dal calo delle esportazioni verso gli Stati Uniti, dai quali non dipende sotto il profilo della difesa militare (come era invece per il Giappone). Al contempo la diversione commerciale causata dalle politiche restrittive non ha cambiato di molto la bilancia commerciale americana, che continua a essere in forte deficit. Il disaccoppiamento delle economie cinese e americana potrebbe portare la Cina a svincolarsi dal legame che la teneva in qualche modo unita a doppio filo agli Stati Uniti.


L’economia cinese sembrerebbe essere uscita dalla guerra commerciale - che prosegue serrata - con le idee chiare: affermarsi indipendentemente dagli USA e dal mercato americano. Il peso economico della Cina d’altronde è enorme e continuerà a farle giocare un ruolo di primissimo piano nel commercio internazionale, anche alla luce degli sforzi compiuti da Pechino per acquisire il monopolio di risorse strategiche imprescindibili per i Paesi occidentali, come le terre rare, fondamentali per la transizione green (di cui potete leggere qui un’analisi specifica).


Se Pechino riuscirà nel suo intento non è scontato, tuttavia se dovesse avere successo si aprirebbe uno scenario nuovo. Fino a pochi anni fa, infatti, essendo fortemente interdipendenti, Cina e Stati Uniti avevano tutto l’interesse a evitare di pestare i piedi dell’altro. Qualora questa interdipendenza dovesse finire, potrebbe venir meno - o quantomeno attenuarsi - l’elemento dissuasivo dell’economia nel danneggiare gli interessi dell’una o dell’altra potenza. Cosa ne sarebbe a quel punto dell’equilibrio nel Pacifico?

(scarica l'analisi)

Note

[1] P. Montalbano, U. Triulzi, La Politica Economica Internazionale, UTET, p. 25. [2] Chad P. Bown, How the United States Marched the Semiconductor Industry into Its Trade War with China, pp. 359-360.


Bibliografia

  • Chad P. Bown, How the United States Marched the Semiconductor Industry into Its Trade War with China

  • P. Montalbano, U. Triulzi, La Politica Economica Internazionale, UTET

Sitografia


[1] «La contabilità nazionale e la bilancia dei pagamenti», Università degli Studi di Verona.


[2] «La Cina come il Giappone: per gli Stati Uniti la storia si ripete», Insideover.


[3] «The Political Economy of Trade Protection», Anne O. Krueger, University of Chicago Press.


[4] «Trade in Goods with World», USCB.


[5] «Trade in Goods with China», USCB.


[6] «La voglia di regolare il commercio è sopravvissuta a Trump», Il Sole 24 Ore.


[7] «La Camera Usa approva una legge per contenere l'influenza economica della Cina», Rai News.


[8] «Le terre rare nella strategia cinese», AMIStaDeS.

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