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Il Sudan ancora in lotta per la democrazia

Aggiornamento: 24 gen 2022

Sudan flag boy
Fonte: https://www.aljazeera.com/news/2021/10/30/sudanese-gear-up-for-nationwide-protests-against-military-coup, Mohammed Abu Obaid/EPA

1. Background


A partire dal 1956 -anno dell’indipendenza- il Sudan è stato caratterizzato da un’ininterrotta alternanza ciclica tra fasi democratiche e regimi militari, le quali hanno comportato forte instabilità politica, economica e sociale, che ha impedito di fatto l’instaurazione di uno stato democratico efficiente. Sia durante i brevi periodi di multipartitismo, sia durante i regimi militari, il governo centrale di Khartoum fallì nei tentativi di trovare compromessi in grado di risolvere pacificamente le numerose tensioni che finirono per consumare il sistema sociopolitico ed economico del Sudan.


La difficile ricerca di un compromesso politico è stata ostacolata dalla continua pressione attuata dal centro sulle diverse periferie del Sudan, la quale ha implicato non solo una progressiva marginalizzazione di quest’ultime, ma anche una graduale intensificazione dei conflitti intestini. Tutti i governi democratici e i regimi militari che si susseguirono all’indomani dell’indipendenza furono, infatti, storicamente dominati dall’élite arabo-musulmana del centro, la quale definì l’identità nazionale del Sudan sulla base della propria lingua, cultura e religione in quanto espressione della maggioranza, giustificando dunque le politiche assimilazioniste intraprese nei confronti delle diverse comunità etno-linguistiche.


Con la collaborazione tra il regime di ‘Umar Hasan al-Bashir e Hassan al-Turabi -principale esponente della Fratellanza Musulmana in Sudan, nonché architetto del colpo di stato del 1989 che portò al potere lo stesso Bashir- fu attuata una lettura fondamentalista della shari‘a, attraverso la quale il governo cercò di creare e consolidare una nazione sudanese culturalmente e linguisticamente omogenea.


Le politiche assimilazioniste perpetuate all’indomani dell’indipendenza hanno dunque causato un progressivo deterioramento delle relazioni tra il centro e le vaste periferie del Sudan. Infatti, sebbene il conflitto fosse più esplicito al Sud, anche le comunità del Nord, come i Nuba, i Fur o i Beja, cercarono di mantenere i loro sistemi culturali distintivi e le loro lingue indigene, adottando diversi modelli di resistenza verso il sistema arabo-musulmano dominante. Fu proprio da queste aree marginalizzate che si diffusero le proteste di massa che riuscirono a rovesciare la trentennale dittatura di Bashir, la quale proiettò il Paese verso una recessione economica senza precedenti.


Nell’aprile del 2019 il popolo sudanese ha intrapreso un complesso percorso verso l’instaurazione di un solido governo democratico, nel pieno rispetto dei diritti umani e delle numerose minoranze etno-linguistiche. Numerosi passi avanti sono stati fatti dal nuovo governo di transizione, tuttavia, nell’ottobre scorso, un colpo di stato militare ha fatto ripiombare il Sudan nell’incubo di una nuova dittatura, con il rischio di nullificare tutti gli sforzi compiuti negli ultimi due anni di transizione politica.


La presente analisi intende dunque ripercorrere le tappe fondamentali che hanno portato al rovesciamento del regime islamista di Bashir e alla successiva instaurazione del governo transitorio recentemente rovesciato al fine di comprendere a pieno la portata dell’attuale crisi politica e sociale del Sudan.


2. Il rovesciamento del regime islamista di ‘Umar Hasan al-Bashir


Le proteste di massa che portarono alla destituzione del Presidente ‘Umar al-Bashir scoppiarono il 13 dicembre 2018 nelle città sud-orientali di Damazin e Sennar, all’indomani della triplicazione del costo del pane e dell’aumento dei prezzi di altri prodotti di base, nonché per la carenza di medicinali, carburante e contanti.


Le proteste riuscirono a diffondersi rapidamente prima nelle città di Atbara e Gedaref, e successivamente nei più importanti centri urbani del Sudan, da Port Sudan a Khartoum, a Omdurman, coinvolgendo presto anche gli esponenti dei principali partiti politici di opposizione, dei sindacati e del fronte professionista, tra cui anche la Sudanese Professionals Association (SPA).


L’immediata risposta del governo fu l’utilizzo eccessivo della forza: il 21 dicembre 2018 Amnesty International riportò che gli agenti di sicurezza nel tentativo di disperdere la folla aprirono il fuoco sui manifestanti, uccidendo almeno nove persone. Successivamente, il 24 dicembre, la stessa fonte dichiarò che almeno trentasette persone erano state uccise dalle forze di sicurezza durante i precedenti cinque giorni di proteste, invitando il governo sudanese a porre fine all’uso della forza in modo indiscriminato.


Nel frattempo, le proteste continuarono in tutto il Paese e il 1° gennaio 2019 la SPA, le National Consensus Forces e altre venti organizzazioni sudanesi si unirono nel Forces for Freedom and Change (FFC), diventando voce ufficiale del movimento rivoluzionario. La nuova coalizione firmò la Declaration of Freedom and Change, attraverso la quale si chiesero le immediate dimissioni del Presidente Bashir, così da poter nominare un nuovo governo nazionale ad interim. In carica per un periodo di quattro anni, il nuovo governo avrebbe avuto il compito di stabilire una solida struttura democratica e di guidare il Paese verso nuove libere elezioni, tuttavia, nei giorni successivi, si intensificarono i violenti scontri tra i manifestanti e le forze armate, durante i quali furono arrestati numerosi attivisti politici e manifestanti.


I cortei antigovernativi si fecero sempre più numerosi in tutto il Sudan e il 6 aprile 2019 fu organizzato un sit-in nei pressi del quartier generale dell’esercito a Khartoum. Secondo quanto riportato da Crisis Group, la polizia antisommossa, pronta a bloccare l’avanzata dei manifestanti, fu trattenuta da alcuni membri delle forze di sicurezza guidate da Salah Gosh, capo del National Intelligence and Security Services, facilitando così il passaggio del corteo. Dopo giorni di ininterrotte manifestazioni, anche il Gen. Muhammad Hamdan Dagalo, leader del Rapid Support Forces, revocò il suo sostegno al regime, cosicché il 10 aprile il comitato di sicurezza decise di estromettere il Presidente Bashir. Il giorno seguente il primo vicepresidente, Ibn Auf, annunciò l’arresto di al-Bashir, ponendo ufficialmente fine alla trentennale dittatura del regime islamista.

Sudan crowd flag
Manifestanti si radunano di fronte al quartier generale dell’esercito a Khartoum, aprile 2019, https://nena-news.it/sudan-manifestanti-uccisi-prime-defezioni-nellesercito/ (Fonte: Twitter)

3. La formazione del nuovo governo di transizione


Ventiquattro ore dopo, il primo vicepresidente Auf riapparve in televisione annunciando la formazione di una nuova giunta militare con a capo il Gen. Abdel Fattah al-Burhan, il quale si mostrò disponibile ad avviare i negoziati con la coalizione d’opposizione.


Il 15 maggio 2019 il FFC e il Consiglio Militare di Transizione comunicarono la formazione di un nuovo governo ad interim, il quale, in carica per tre anni, avrebbe guidato il Paese verso libere elezioni democratiche. Tuttavia, il giorno seguente, il Consiglio Militare sospese i colloqui con le forze di opposizione, cosicché il 28 e il 29 maggio il FFC e il Partito Comunista organizzarono uno sciopero che coinvolse gran parte del Paese[1]. Le tensioni tra il nuovo Consiglio Militare di Transizione e le forze di opposizione esplosero il 3 giugno 2019, quando le forze paramilitari del Rapid Support Forces decisero di attaccare brutalmente i manifestanti pacifici, arrestando e uccidendo centinaia di manifestanti e ferendone più di settecento[2]. Secondo quanto riportato da Amnesty International, le forze di sicurezza tentarono di occultare le uccisioni gettando i cadaveri nel fiume Nilo, aggredendo i giornalisti e bloccando internet e i social media.


Il massacro del 3 giugno attirò l’attenzione della comunità internazionale. Il 6 giugno, infatti, l’African Union Peace and Security Council sospese la partecipazione del Sudan da tutte le attività dell’Unione Africana fino all’effettiva istituzione di un’autorità di transizione a guida civile, considerata come unico mezzo per risolvere la crisi in corso in Sudan. Le azioni del 3 giugno furono condannate anche dall’ONU e dai governi degli Stati Uniti, della Norvegia e del Regno Unito (‘Troika’), i quali rilasciarono una dichiarazione congiunta in cui espressero seria preoccupazione per la scelta del Consiglio Militare di Transizione di sospendere i colloqui con le forze di opposizione. La società civile, infine, organizzò nuove manifestazioni di massa coordinate in tutto il Sudan, le quali si svolsero il 30 giugno 2019, giorno del 30° anniversario del colpo di stato che portò al potere l’ex presidente Bashir.


La concomitanza tra pressioni diplomatiche e il forte dissenso interno si rivelò fondamentale per riaprire i colloqui tra la giunta militare e le forze di opposizione. A partire dal luglio 2019, infatti, sotto l’egida dell’UA e del Primo Ministro etiope, si svolsero i negoziati di pace, i quali portarono alla stesura della bozza della costituzione transitoria e successivamente alla firma dell’accordo di condivisione del potere tra la leadership militare e l’alleanza di opposizione[3].


In virtù dell’accordo di power sharing siglato il 17 agosto 2019, il Consiglio Militare di Transizione ha ceduto la sua autorità al nuovo Consiglio Sovrano, incaricato di guidare la transizione democratica per non oltre 39 mesi, al termine dei quali si sarebbero svolte libere elezioni democratiche. Il Consiglio Sovrano istituito ufficialmente il 18 agosto 2019 è un organo collegiale a composizione mista, formato da undici membri, di cui cinque rappresentanti del FCC, cinque membri eletti dalle forze di sicurezza e un civile nominato congiuntamente. Secondo l’accordo di redistribuzione del potere, inoltre, il Consiglio è affiancato da un nuovo gabinetto, formato da civili approvati dalle forze di opposizione, le quali il 21 agosto 2019 nominarono l’economista Abdalla Hamdok come Primo Ministro del Sudan.


Come afferma Crisis Group, l’accordo del 17 agosto è stato siglato con l’obiettivo di ridurre l’influenza delle forze armate, le quali hanno storicamente dominato il dibattito politico ed economico del Sudan. Secondo quanto stabilito nella bozza costituzionale e nel successivo accordo, infatti, il nuovo gabinetto e il primo ministro si sarebbero dovuti assumere la responsabilità effettiva della gestione del Paese, supervisionando tutte le istituzioni statali al di fuori del settore della sicurezza e degli affari esteri, le cui responsabilità ricadono sul Consiglio Sovrano. Quest’ultimo, inoltre, è guidato da un militare (Abdel Fattah al-Burhan) per i primi 21 mesi, dopodichè, per i successivi 18 mesi la guida del nuovo organo collegiale sarebbe dovuta passare in mano a un civile[4].

Sudan military general
Gen. Abdel Fattah al-Burhan, 26 ottobre 2021, https://edition.cnn.com/2021/10/26/africa/gallery/sudan-coup/index.html, Ashraf Shazly/AFP/Getty Images

4. Il colpo di stato del 25 ottobre 2021: militari di nuovo al potere


A poche settimane dal passaggio di leadership del Consiglio Sovrano a un membro della coalizione civile, il Sudan assiste all’ennesimo colpo di stato militare. Il 25 ottobre scorso, infatti, l’esercito è riuscito a prendere di nuovo il potere.


Dopo aver ordinato l’arresto del Primo Ministro Hamdok e di altri membri del gabinetto, il Gen. al-Burhan ha annunciato lo stato d’emergenza nazionale, lo scioglimento di tutte le istituzioni transitorie e la sospensione di numerosi articoli della bozza costituzionale. Inoltre, secondo quanto riportato da Sudan Tribune, subito dopo il golpe militare, al-Burhan ha sostituito i governatori statali, i sottosegretari dei ministeri federali e i direttori delle banche e degli enti pubblici con membri del vecchio National Congress Party, il partito che detenne il potere durante la dittatura di Bashir, e che fu ufficialmente sciolto all’indomani della sua deposizione.


La reazione della popolazione al colpo di stato è stata immediata: decine di migliaia di sudanesi pro-democrazia hanno risposto agli appelli della SPA e della FFC. In moltissimi sono scesi per le strade di Khartoum e di altre principali città del Sudan, bruciando pneumatici e improvvisando barricate nel tentativo di ostacolare i golpisti. I manifestanti chiedono ormai da settimane l’immediato ripristino delle istituzioni transitorie e il proseguimento del processo di transizione democratica. L’esercito, tuttavia, come già accadde durante le proteste di due anni fa, ha risposto con un utilizzo eccessivo della forza: secondo quanto riportato da Radio Dabanga e da Al Jazeera, le forze di sicurezza hanno utilizzato munizioni vere e gas lacrimogeni per disperdere la folla, ferendo e uccidendo diversi manifestanti.


Il colpo di stato e le violazioni dei diritti umani da parte dell’esercito sudanese nei confronti dei manifestanti pacifici hanno attirato l’attenzione della comunità internazionale. Nelle ore successive al golpe, infatti, il portavoce del Dipartimento di Stato statunitense, Ned Price, ha dichiarato la sospensione del pacchetto di aiuti del valore di 700 milioni di dollari.


La posizione statunitense è stata poi condivisa non solo dalla Banca Mondiale, la quale ha annunciato il blocco degli esborsi in tutte le sue operazioni in Sudan, ma anche dall’Unione europea, che ha definito “inaccettabile” il tentativo di minare la transizione verso l’instaurazione di un governo democratico, annunciando che ci saranno gravi conseguenze per l’impegno europeo qualora la situazione non venisse capovolta immediatamente. Il Sudan, inoltre, è stato sospeso da tutte le attività dell’Unione Africana fino all’effettivo ripristino del governo di transizione a guida civile.


Infine, anche Amnesty International si è detta estremamente preoccupata per l’imposizione dello stato d’emergenza, la violenta repressione delle proteste e la chiusura di internet, attraverso la quale le forze di sicurezza sudanese tentano di occultare gli abusi in materia di diritti umani e le detenzioni illegali.

Boys fire riots
Manifestanti bruciano pneumatici per le strade di Khartoum, 25 ottobre 2021, https://edition.cnn.com/2021/10/26/africa/gallery/sudan-coup/index.html AFP/Getty Images

5. Conclusioni


Nonostante il Gen. al-Burhan abbia annunciato che le elezioni generali si terranno nel luglio 2023 e che le attuali misure d’emergenza siano solamente temporanee, la transizione democratica del Sudan risulta essere fortemente a rischio.


L’avvenuto colpo di stato, infatti, ha in primo luogo messo in pericolo la posizione internazionale del Sudan come democrazia nascente, compromettendo così la fornitura degli aiuti esteri, essenziali per ristabilire la difficile situazione economica del Paese. La risalita al potere dei militari, inoltre, ha di fatto nullificato tutte le misure prese dall’amministrazione Hamdok, il cui obiettivo era proprio quello di ridurre l’influenza dei generali sudanesi.


Con i militari di nuovo alla guida del Paese si rischia infine di ricadere in una nuova guerra civile. Oltre alla forte resistenza popolare, il colpo di stato del 25 ottobre scorso rischia infatti di incrinare il delicato processo di pacificazione intrapreso con i ribelli del Darfur e con le altre regioni periferiche, le quali, avendo subito decenni di violente politiche assimilazioniste da parte del governo centrale, sono da sempre restii a intraprendere un dialogo politico con un governo a guida militare.


La priorità ora è che la comunità internazionale mantenga alta l’attenzione, assicurandosi che venga rispettato il diritto alla libertà di espressione e di manifestazione pacifica, così da evitare ulteriori spargimenti di sangue e il ripetersi di episodi come la strage del 3 giugno 2019. Deve essere rispettato il legittimo diritto del popolo sudanese ad avere uno stato democratico efficiente, in grado di garantire rappresentanza politica e un’equa distribuzione del potere e delle risorse tra le diverse comunità etno-linguistiche, in modo tale da raggiungere un cessate-il-fuoco in tutte le aree di conflitto, prerogativa essenziale per poter attuare una transizione democratica di successo.


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Note

[1] ICG, Safeguarding Sudan’s Revolution, Report 281/Africa, 21 ottobre 2019: https://www.crisisgroup.org/africa/horn-africa/sudan/281-safeguarding-sudans-revolution [2] Ibidem. [3] Ibidem. [4] Draft Constitutional Charter for the 2019 Transitional Period, Traduzione inglese del testo disponibile su: https://constitutionnet.org/sites/default/files/2019-08/Sudan%20Constitutional%20Declaration%20%28English%29.pdf


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