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Porti chiusi: corsi e ricorsi di una strategia fallimentare di tortura e morte

  • 5 nov 2019
  • Tempo di lettura: 10 min

Aggiornamento: 14 nov 2020

Una famiglia afgana lungo il confine serbo-ungherese. 2015. © Valerio Muscella

1. Le radici dello scempio

Il 2018 verrà ricordato come l’anno in cui l’impossibile è divenuto reale, l’abuso e la violazione sistematica dei diritti umani la regola, il decreto sicurezza e sicurezza bis l’attuazione.

La scellerata strategia di annunciare la chiusura dei porti alle persone soccorse nel #Mediterraneo è l’epilogo di un percorso che va rintracciato nelle fasi storiche che precedono di un passo l’avvento delle primavere arabe.

Nel 2009 l’allora governo Berlusconi-Maroni pose in essere una serie di misure che concretizzandosi nella violazione del diritto di non-refoulement, di fatto comportarono il respingimento in mare di richiedenti asilo, ricondotti in Libia, che già allora non poteva considerarsi un porto sicuro.

Da questo punto di vista il 2009 segna uno spartiacque gravissimo, laddove affidò la gestione dei flussi migratori attraverso il Mar Mediterraneo agli accordi bilaterali con la #Libia che implicarono nella loro attuazione la violazione delle norme internazionali fondamentali e dei pilastri a fondamento della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo e soprattutto determinarono come conseguenza diretta l’avallo e l’implicita accettazione della tortura, dell’uccisione e della violenza di genere di migliaia di richiedenti asilo in Libia.

Violare l’inviolabile, superare il categorico ha piantato le radici di una visione strumentale della migrazione che ancora a distanza di dieci anni la storia non riesce ad estirpare.

In tal senso le violazioni giuridiche comportate dalla chiusura dei porti alle persone soccorse nel Mediterraneo possono considerarsi come un continuum, un reiterare ed aggravare una fase storica che nemmeno le condanne giurisdizionali sono riuscite ad archiviare come un’aberrazione giuridica del passato.


2. 2011: odissea nel Mar Mediterraneo

Occorre attendere due anni di indicibili soprusi prima che gli eventi riprendano il loro corso sorprendentemente accelerato dalla caduta dei governi di Hosni Mubarak, Zine El-Abidine Ben Ali e Mu’ammar Gheddafi. Gli sconvolgimenti che avvennero nel Nord Africa nel segnare un superamento degli accordi fino ad allora perseguiti ne denunciarono con chiarezza la fallimentarietà, travolgendo il Mediterraneo che puntualmente restituì all’Europa l’immagine delle sevizie inutilmente sopportate. Solo nel 2011 più di 40.000 persone giunsero in Sicilia in fuga dalla Tunisia e dalla #Libia. Finalmente riuscirono ad arrivare le migliaia di persone che partite dall’Africa Subsahariana e dal Corno d’Africa nel tentativo di raggiungere l’Europa, erano state detenute e torturate all’interno di carceri libiche. Le supposizioni, le illazioni o le teorie devono cedere il passo ai fatti e i fatti inchiodano alle colpe, la cui gravità esige e rivendica di non assistere dieci anni dopo alla loro reiterazione in nome di una visione che ne determina un’endemica violazione. La gestione di oltre 40.000 persone in arrivo dalla #Tunisia e dalla Libia incise sulle criticità di un fragile sistema migratorio che ne uscì inevitabilmente schiacciato. La coerenza sbalzata dall’emergenza e la rigida dicotomia migranti economici- richiedenti #asilo vacillò sotto il peso della sua intrinseca contraddizione. Il labile confine che divide le due categorie giuridiche era già stato revisionato dalla storia con chiarezza e la decisione di accordare una protezione temporanea a tutte le persone giunte dalla Tunisia ne era la conferma. La complessità di una tale decisione si comprende alla luce della legge 15/07/2009, nota come il “pacchetto sicurezza”, che aveva introdotto il reato di #immigrazione clandestina ed esteso il trattenimento all’interno dei centri di detenzione fino ad un massimo di 180 giorni. I cittadini tunisini fino ad allora erano stati tra i principali destinatari di tali norme e riconoscere la possibilità di accordargli protezione, comportava implicitamente il superamento di quella rigida categorizzazione. L’averla concessa a breve termine, stabilendo arbitrariamente il 5 aprile 2011 come data in cui la Tunisia poteva nuovamente considerarsi un Paese sicuro, non solo non ripristinava l’ordine delle cose precedente, ma ne sottolineava con maggior forza l’incongruenza, l’ingiustizia e la #discriminazione nei confronti delle persone che giunte dalla Tunisia dopo il 5 aprile, tornavano ad essere destinatarie di un ordine di espulsione. Si attuò una gestione frammentata e caotica che prevedeva che le iniziali tendopoli destinate agli uni diventassero improvvisate strutture detentive destinate agli altri. L’allontanamento dei cittadini della Tunisia dalle tendopoli di Manduria, Santa Maria Capua Vetere e Palazzo San Gervasio, che nel tentativo di raggiungere la Francia venivano riportati dalla gendarmeria francese a Ventimiglia, sottolineava con forza i limiti del sovranismo europeo. Limiti che la crisi siriana e gli accordi con la #Turchia del 2016 avrebbero in muri e filo spinato trasformato.

3. Piano emergenza Nord Africa: l’inizio del logoramento del diritto di asilo

In questa ottica il 2011 segna uno spartiacque altrettanto importante, laddove il tentativo di mistificare la storia disegna un nuovo sistema di asilo che ne decreta il collasso e fallimento. Se da un lato il sistema detentivo si rafforza, quello dell’accoglienza subisce una profonda modifica che ne determina un progressivo indebolimento e stravolgimento. Pur di non accordare diritti in precedenza non riconosciuti, si incide su quelli consolidati, iniziando lentamente a svuotarli di senso e significato. La gestione dei flussi migratori giunti nel 2011 si basò su scelte che determinarono conseguenze dirette sul sistema di asilo preesistente, le cui ripercussioni sono alla base di attuali decisioni. Gli spostamenti di migliaia di richiedenti asilo da un centro di accoglienza ad un altro, la chiusura improvvisa dei centri o la loro repentina trasformazione giuridica, sono un’eredità delle scelte del passato e sono alla base dell’inaugurazione nel marzo 2011 del più grande centro di accoglienza italiano, il CARA di Mineo. L’intenzione iniziale era di destinarlo all’accoglienza di migliaia di #migranti tunisini che giunti a Lampedusa attendevano da mesi un’adeguata sistemazione, ma a fronte delle proteste dei territori limitrofi Mineo, pur di non rinunciare al lucroso progetto, si scelse di destinarlo ai richiedenti asilo già accolti in altre città italiane. Trasferire richiedenti asilo che avevano iniziato un loro percorso di integrazione e che in molti casi avevano già fissata la data dell’audizione presso la Commissione Territoriale di riferimento, non solo non risolse la questione inerente all’accoglienza dei cittadini tunisini che vennero poi accolti in tendopoli improvvisate, ma comportò un indebolimento arbitrario del sistema di asilo fino ad allora delineato. Le criticità del #CARA di Mineo già evidenti sin dal suo esordio, si sono amplificate fino a divenire connaturate al sistema di asilo stesso. Per comprendere la portata delle modifiche intercorse, occorre ricordare che in precedenza le persone che giungevano in Italia attraversando illegalmente le frontiere, venivano considerate migranti irregolari destinatarie di ordini di espulsione, ad eccezione di quanti manifestassero la volontà di richiedere Protezione internazionale e di essere dunque ammessi alla procedura di richiesta di asilo. Le persone che venivano ammesse alla procedura divenivano richiedenti asilo e di conseguenza trasferite all’interno di centri di accoglienza, le altre considerate irregolari se non rimpatriate nell’immediatezza, venivano trasferite all’interno dei centri di identificazione ed espulsione. La modifica introdotta ha riguardato i flussi in provenienza dalla Libia che venivano ammessi automaticamente nella procedura di asilo a prescindere da una loro manifestazione di volontà e conseguentemente trasferiti all’interno dei centri di accoglienza. Tutto ciò ha comportato il diffondersi di un modello di accoglienza diffusa caratterizzato da profonde criticità e destinato ad accogliere persone che sebbene fossero state automaticamente considerate richiedenti asilo, in realtà in moltissimi casi, non avendo i requisiti richiesti dalla Convenzione di Ginevra del 1951 per ottenere un riconoscimento alla propria richiesta di protezione, ottenevano un diniego alla propria richiesta. Da questo punto di vista l’ammissione alla procedura di richiesta asilo automatica non comportava un ampliamento del #diritto, ma finiva per essere uno stratagemma per non affrontare la questione di chi pur non essendo un richiedente asilo secondo i parametri della Convenzione di Ginevra del 1951, aveva comunque diritto ad una forma di #protezione. Si assiste ad una fase di transizione dove l’ammissione indiscriminata alla procedura di richiesta di asilo è sorretta da una nuova terminologia che sostituisce ai richiedenti asilo i profughi, senza dettarne i connotati giuridici. Sostanzialmente il riferimento alterno ai migranti come profughi, naufraghi o clandestini, comporta come conseguenza diretta quella da un lato di non affrontare le questioni che sono alla base della migrazione che viene considerata economica e dall’altro quella di svuotare di senso in maniera progressiva i diritti da sempre connessi all’essere un richiedente asilo. L’aver determinato una procedura indiscriminata di ammissione alla richiesta di asilo, lungi dall’aver riconosciuto un diritto, ha finito di fatto per indebolirlo e la generica assimilazione di un richiedente asilo ad un profugo, invece di determinare il superamento delle categorie giuridiche che un diverso contesto politico da tempo esigeva, ha determinato una generalizzazione priva di contenuto normativo. Anche i trattamenti inumani e degradanti così come definiti dall’articolo 3 della CEDU, soffrono della stessa generalizzazione, nel momento in cui essendo stati inflitti alla quasi totalità dei richiedenti asilo in provenienza dalla detenzione in Libia, non possono come avveniva in precedenza per casi che erano minoritari, essere da soli una ragione di aver riconosciuta una forma di protezione umanitaria. Nelle fasi che seguirono l’attuazione del piano di emergenza Nord #Africa, si assistette alla genesi di un nuovo sistema di accoglienza che da allora ha tutt’ora insite nella sua natura le cause dell’esclusione stessa. I tempi dell’esame delle richieste di protezione internazionale superarono i due anni di attesa e nella pluralità dei casi si conclusero con un diniego al riconoscimento della protezione. La ragione risiedeva nell’aver spinto il sistema al parossismo di ammettere alla procedura di asilo chi di fatto ne sarebbe stato estromesso con un provvedimento di diniego.

Osservando i dati riportati sul sito del Ministero dell’Interno delle domande di richieste di Protezione Internazionale e i loro esiti, relativi al 2014 e in particolare al 2015, si nota che a fronte di 71.117 domande presentate, 41.503 hanno ricevuto un provvedimento di rigetto, il che tradotto in termini percentuali mostra che oltre la metà delle persone ha ricevuto un diniego.

La gravità dell’abrogazione della protezione umanitaria ai sensi dell’articolo 5 del Dlgs. 286/1998, avvenuta nel 2018, si comprende anche in tale ottica, privando il diritto di uno strumento che permetteva di superare le rigide barriere del paradosso venutosi a delineare. I casi speciali e la protezione speciale introdotti dalla legge 132/2018 in sostituzione della precedente protezione umanitaria, riferendosi a situazioni specifiche e tassative non permettono di considerare quei diritti che esclusi dal riconoscimento internazionale rinvenivano nella protezione umanitaria l’unica forma di tutela.


4. 2015: la crisi dello spazio Schengen

Se gli sconvolgimenti della primavera araba evidenziarono le criticità del sistema di #immigrazione italiano, è con la crisi siriana del 2015 che si assiste alla denuncia dei limiti e delle contraddizioni di quello europeo.

Nel 2015 circa un milione di persone sono giunte in Europa, di cui circa la metà siriani in fuga dalla guerra.

Al diritto di 455 mila persone di essere protette come rifugiate non viene data altra via di fuga se non quella di esser costretti a compiere viaggi estremamente pericolosi attraversando illegalmente le frontiere.

Solo nel 2015 circa 4.000 persone hanno perso la vita nel #Mediterraneo nel tentativo di raggiungere un’Europa che in luogo di determinare un canale di migrazione sicuro per le fughe da guerra e #persecuzione, mostra con chiarezza il superiore interesse di controllo delle proprie frontiere.

Da questo punto di vista il 2015 si pone in continuità con l’operazione #Triton istituita nel 2014, guidata da #Frontex, che aveva già reso manifesto come l’imperativo categorico fosse la difesa e controllo delle frontiere europee.

Resi evidenti gli intenti, anche le decisioni si sono sentite legittimate a spogliarsi di quella retorica che ha operato a lungo un distinguo opportunista tra chi andava tutelato e chi respinto.

A fronte di una gravissima crisi umanitaria, la risposta dell’Europa è stata quella di rafforzare o chiudere le proprie frontiere e di reiterare accordi e strategie che oltre a determinare gravi violazioni dei diritti umani, ricalcavano un modello che già nel caso della Libia si era mostrato inefficace. Si pensi al piano d’azione comune UE-Turchia avviato a novembre 2015, tradottosi a marzo dell’anno successivo in un accordo secondo il quale i migranti irregolari in viaggio dalla #Turchia verso le isole greche per poi proseguire attraverso la rotta balcanica, dovessero essere ricondotti in Turchia. In tal senso altresì emblematica la decisione dell’Ungheria di chiudere le frontiere a quanti una volta giunti attraverso la rotta balcanica, sarebbero stati di certo riconosciuti come rifugiati.

Quindici metri di filo spinato lungo un muro di circa 175 chilometri eretto dall’#Ungheria lungo la #frontiera con la Serbia, resero i valori fondanti dell’Europa un orpello del passato.

La realtà viene progressivamente adulterata da una narrativa che nel porre al centro il contrasto al business dei trafficanti di esseri umani e alle rotte irregolari, riscrive una pagina distopica della migrazione che vede nel biennio #Minniti la sua massima espressione.

Lo sforzo delle navi delle Ong di ricerca e soccorso nel Mar mediterraneo viene progressivamente criminalizzato e fortemente minato dal codice di condotta varato nel 2017.

Contestualmente vengono ripristinati gli accordi con la Libia che dalla morte di Gheddafi continua ad essere un Paese estremamente instabile e polarizzato.

Con l’obiettivo di ridurre i flussi in arrivo, la detenzione e la tortura in Libia tornano ad essere un effetto collaterale tollerato mentre la solidarietà siede come principale indagata al banco degli imputati.

Da questo punto di vista la gestione migratoria del Governo post Minniti non fa altro che spingersi oltre i limiti di un percorso già in parte delineato.


5. Porti aperti: cosa ancora non cambia.

Le decisioni prese dall’attuale governo non sembrano segnare un superamento da quello recentemente passato.

In luogo di ridiscutere come auspicabile i “decreti #sicurezza” e di introdurre nuovamente l’istituto della protezione umanitaria la cui abrogazione ha determinato ripercussioni gravissime sulla regolarità di migliaia di migranti, si è annunciata attraverso il “decreto #rimpatri” la volontà altisonante di accelerare le procedure di rimpatrio da due anni ad un massimo di quattro mesi individuando una lista di Paesi sicuri.

Contestualmente si è discusso a Lussemburgo l’accordo di #Malta, che cerca di definire attraverso base volontaria la ridistribuzione tra i Paesi europei dei migranti soccorsi in mare. Tale visione in linea con la narrativa attuale non amplia l’angolo visuale e continuando a sottolineare un processo di desoggettivazione delle cause e dell’identità di chi è costretto a migrare, difficilmente potrà conseguire quanto si propone di attuare.

“Redistribuire” è un verbo transitivo che presuppone che l’azione passi da un soggetto che la compie ad un complemento oggetto che la riceve o la subisce, privandolo della possibilità di esprimersi attraverso una volontà di autodeterminazione.

In tal senso il programma di relocation avviato nel 2015, altresì basato su una redistribuzione arbitraria dei richiedenti asilo tra gli Stati membri, non ha tardato molto a mostrare i limiti e le contraddizioni della mancata volontà di riformare adeguatamente il principio che, introdotto dalla Convenzione di Dublino entrata in vigore nel 1997, individua nel Paese di arrivo lo Stato competente all’esame della domanda di Protezione Internazionale.

Inoltre nell’accordo di Malta vi è riferimento esclusivo ai #migranti soccorsi in mare, omettendo così come avvenuto negli ultimi quindici mesi gli arrivi autonomi che si sono comunque continuati a verificare e tralasciando di considerare la rotta del Mediterraneo orientale che anche alla luce delle ultime vicende turche, non si presume avrà un ruolo secondario.

La lotta al #traffico di esseri umani e alle #rotte irregolari non trova nella ridistribuzione dei richiedenti asilo, negli accordi con la Libia o nel rafforzamento della detenzione amministrativa in vista di un aumento dei rimpatri, un’adeguata risposta che contempli e si assumi la responsabilità delle cause della migrazione.

Fintanto che non si potenzieranno canali sicuri di migrazione, difficilmente si potrà arginare una gestione migratoria che continua a determinare inaccettabili morti in mare.

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