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La Nuova Via della Seta: un game changer nella lotta al cambiamento climatico?

  • 30 lug 2020
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 14 dic 2020


1. Leader nelle rinnovabili, leader nel carbone

La Cina, la seconda economia mondiale[1] e il Paese con le più alte emissioni di CO2 in termini assoluti[2], viene spesso criticata per la mancanza di azioni concrete volte alla limitazione delle emissioni a livello domestico e nei numerosi investimenti portati avanti a livello globale.

Se è vero che tra il 2010 e la prima metà del 2019 la Cina è stato il primo Paese al mondo per investimenti (US$ 758 miliardi) nella costruzione di impianti per la produzione di energia rinnovabile, allo stesso tempo si conferma il leader indiscusso nello sviluppo di nuovi impianti a carbone. Nella sola Cina, a fine 2019, erano in costruzione 148 GW di capacità a carbone, l’equivalente della capacità totale di tutti gli impianti a carbone esistenti nell’Unione Europea.


2. L’impatto della Nuova Via della Seta

Un’analisi completa dell’apporto cinese alle emissioni nocive non può non considerare il contributo relativo alle opere della Belt and Road Initiative (BRI), la faraonica Nuova Via della Seta promossa dal Paese del Sol Levante a partire dal 2013. L’iniziativa vede 130 paesi aderenti, equivalenti a quasi un quarto del PIL mondiale e 30% delle emissioni di CO2 (Cina esclusa).

Uno studio approfondito elaborato dallo Tsinghua Center for Finance and Development, la società di consulenza Vivid Economics e la no-profit ClimateWorks Foundation ha evidenziato l’impatto sconvolgente dell’iniziativa sul delicato equilibrio delle emissioni di gas serra.

Lo studio prende ad esempio 17 Paesi[3] aderenti alla BRI e calcola le emissioni di CO2 derivanti dalla realizzazione dei relativi progetti. Applicando il tasso di crescita medio delle emissioni nei 17 Paesi di riferimento a 126 coinvolti nella BRI[4], e assumendo che i Paesi non aderenti moderino le proprie emissioni in modo da limitare l’aumento della temperatura globale di 2°C come convenuto dagli Accordi di Parigi del 2015, le emissioni totali sarebbero il doppio di quanto necessario a scongiurare tale aumento della temperatura globale (porzione di grafico in beige chiaro – “Average historical growth”)[5] con orizzonte 2050.


È importante ricordare che sia la Cina sia i 17 Paesi di riferimento dello studio hanno firmato gli Accordi di Parigi del 2015. Ciò nonostante, tra il 2000 e il 2019, le due principali policy banks[6] cinesi, la China Development Bank e la Export-Import Bank of China, hanno finanziato progetti della BRI nel settore energetico non rinnovabile (petrolio e carbone) e idroelettrico per 183 miliardi $, contro appena 4.8 dedicati al solare e all’eolico.


3. Un cambio di direzione negli investimenti?

Gli investimenti massicci in settori altamenti inquinanti e/o pericolosi per la tutela ambientale e delle comunità potrebbero vedere presto una decellerazione, per una serie di ragioni concorrenti.

In primo luogo, il rallentamento della crescita economica in Cina ha portato ad una conseguente moderazione delle iniziative in territorio straniero. Nel 2019, le policy banks cinesi hanno concesso solamente tre prestiti volti a finanziare progetti energetici, per un totale di US$3.2 miliardi, il livello più basso dal 2008. É lecito pensare che l’impatto economico della pandemia di COVID-19 possa portare ad un’ulteriore diminuzione degli investimenti cinesi nel breve termine.

Pur in un’ottica che predilige il profitto alla conservazione ambientale, é possibile che dovendo razionalizzare gli investimenti, la Cina dia la priorità a progetti percepiti come rispettosi dell’ambiente e delle comunità, anche per alimentare un’immagine positiva dell’investitore.

Tale atteggiamento sarebbe una risposta adeguata al numero crescente di cause intentate verso progetti della BRI giudicati pericolosi dalle comunità locali. Nel Maggio 2019, per esempio, il National Environmental Tribunal del Kenya ha emesso una sentenza volta a sospendere la costruzione di una centrale a carbone finanziata dalla Cina a Lamu, sito patrimonio dell’Unesco.

Piccoli passi iniziano ad essere fatti verso un approccio più attento agli standard ambientali e al rispetto delle comunità locali, anche se si é ancora ben lontani dai regolamenti vigenti, per esempio, in ambito UE.


4. ESG: verso standard universali?

Nel Luglio 2019, la borsa di Hong Kong è stata la prima, in Cina, a introdurre l’obbligo per tutte le compagnie quotate di pubblicare le proprie azioni in ambito ambientale, sociale e di governance (ESG).

Le borse di Shenzhen e Shanghai dovrebbero seguire l’esempio di Hong Kong nel corso del 2020[7]. L’iniziativa è in linea con un crescente interesse, da parte cinese, alle iniziative finanziarie in ambito “green”: nel 2018, circa un terzo (666) delle compagnie quotate sulla borsa di Shenzhen ha reso pubbliche le proprie informazioni ESG, il 40% in più rispetto all’anno precedente.

Nonostante l’interesse crescente verso la tematica, la Cina non ha ad oggi imposto alcun obbligo di dichiarazione o standard universalmente riconosciuti per calcolare l’impatto ambientale delle diverse compagnie. Lo stesso vale per numerosi paesi in cui la Cina investe, attraverso la Belt and Road initiative. Un primo, timido passo verso finanziamenti più responsabili è stato fatto con l’emissione, nell’Aprile 2019, del primo Belt & Road Interbank bond “verde”, per un valore di US$2.2 miliardi. Poca cosa rispetto ai US$200 miliardi già investiti nel progetto, ma un piccolo passo verso quello che si spera essere un impegno di più larga scala.


5. Conclusioni

La piena realizazione delle opere finora contemplate dalla Belt and Road Initiative potrebbe vanificare gli sforzi messi in atto da numerosi Paesi per scongiurare un eccessivo aumento della temperatura globale ed il conseguente cambiamento climatico.

Diversi fattori, tra i quali una stagnazione degli investimenti per motivi economici, la crescente opposizione di gruppi d’interesse verso progetti pericolosi per le comunità e la lenta introduzione di obblighi legati alle performance ESG delle compagnie quotate sulle borse cinesi potrebbero diminuire l’impatto della BRI a livello ambientale. Il vero game changer, tuttavia, sarà l’attitudine dei singoli Paesi aderenti all’iniziativa: una politica ambientale severa e l’impegno a rifiutare le forme di investimento con un impatto negativo sulle comunità sono i soli veri strumenti in grado di prevenire la catastrofe.



Note [1] In termini di PIL nominale, US$ 14.14 trilioni. Al primo posto si collocano gli USA, con US$ 21.44 trilioni. [2] 10,065 Mt nel 2018. Al secondo posto gli USA con la metà, 5,416 Mt. La classifica cambia se ci si riferisce alle emissioni di CO2 per persona: la Cina occupa il 49esimo posto nella classifica mondiale (7 tCO2/persona), gli USA il 12esimo (17 tCO2) . Al primo posto, il Qatar con 38 tCO2. [3] Arabia Saudita, Bangladesh, Egitto, Filippine, Indonesia, Iran, Malesia, Mongolia, Myanmar, Kazakistan, Pakistan, Russia, Singapore, Sri Lanka, Thailandia, Ucraina, Vietnam. [4] All’epoca della redazione dello studio (2018), i paesi aderenti alla BRI erano 126. A Marzo 2020, il numero ha raggiunto i 131-138, a seconda delle fonti. [5] Lo scenario sarebbe ancora più catastrofico qualora, anziché le emissioni storiche (« Average historical growth »), venissero presi in considerazione i tassi di crescita delle emissioni più alti (“Carbon intense historical growth” – porzione di grafico beige scuro). In tal caso, l’aumento globale della temperatura sarebbe di 2.7°C. [6] Per « Policy bank » si intendeno le banche le cui azioni sono mirate al sostegno politico del paese di appartenenza. Tale sostegno si manifesta, per esempio, attraverso il finanziamento di opere chiave per la politica interna ed estera del paese in questione. In Cina, le policy banks sono il prodotto dell’apertura del sistema bancario a partire dai primi anni ottanta del secolo scorso. [7] Le due borse hanno introdotto linee guida di base in merito alle credenziali ESG delle compagnie quotate già nel 2006 e 2008 rispettivamente. Si tratta di principi vaghi e non coercitivi, con un’influenza minima sulle iniziative delle compagnie in questione.

Bibliografia/Sitografia


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