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L’Insostenibile Leggerezza di Essere Abe Shinzo

  • 14 set 2020
  • Tempo di lettura: 16 min

Aggiornamento: 8 lug 2022


Lo scorso 28 agosto alle ore 17:00 di Tokyo, il primo ministro giapponese Shinzo Abe scioccava l’intero arcipelago annunciando ufficialmente alla nazione le sue dimissioni dopo soli quattro giorni dall’essere divenuto il più longevo leader politico nella storia moderna del paese. Le notizie e i rumors che fino a quel fatidico giorno si erano rincorsi tra sale stampa e i corridoi del Kantei, il centro operativo e di comando della politica giapponese, erano infine risultati veritieri. Il premier Abe sta male, al punto da non poter essere più in grado di adempiere ai suoi doveri come primo ministro del Giappone.


Affetto da colite ulcerativa, la stessa malattia che lo costrinse alle dimissioni durante il suo primo mandato nel 2007, il premier ha annunciato la sua decisione davanti ad una sala ghermita di giornalisti. Stanco e visibilmente commosso, ha fatto ciò che molti non si aspettavano: si è scusato con la nazione per non esser riuscito a portare a termine nessuno dei suoi ambiziosi progetti come primo ministro. In particolar mondo il momento più sentito per Abe è stato quando ha ammesso di non aver ottenuto progressi significativi sul fronte dei famigerati rapimenti di cittadini giapponesi perpetrati in passato dal regime nordcoreano, un tema caldo e ancora molto sentito in Giappone. Più in generale, Abe ha ammesso di non esser riuscito a risollevare l’economia giapponese, affetta ormai da tempo dalla stagnazione, di non aver portato a termine la riforma costituzionale che avrebbe reso il Giappone un paese “normale” dotato di forze armate regolari capaci di operare anche al di fuori dei confini nazionali, di non esser riuscito a firmare un trattato di pace con la Russia, da tempo atteso dalla fine della guerra e molto altro ancora.


Nelle ore successive al suo annuncio numerosi commentatori, opinionisti e accademici si sono lanciati su Twitter e sulle principali testate di informazione in svariati commentari circa l’operato di Abe in questi sette anni e otto mesi di governo. Ciò che ne esce fuori è un compendio molto eterogeneo di opinioni e di giudizi sul primo ministro giapponese basati molto sul punto di vista di ciascun autore. Si va infatti da commenti piuttosto critici per quanto riguarda l’operato del premier in campo economico a giudizi positivi invece per l’impegno e il ruolo internazionale che il Giappone ha deciso di ricoprire sotto la sua guida. Ciò che ci riproponiamo qui con la seguente analisi è l’intenzione di mettere ordine fra le numerose voci critiche e non, al fine di delineare un quadro di quello che è stato il Giappone di Abe e di come -perché, secondo l’opinione di chi scrive ma non solo, è un giudizio pressoché unanime- Shinzo Abe verrà ricordato come uno dei personaggi più importati per la politica di Tokyo con un’eredità non facilmente liquidabile da qualche critica.


1. Vedi alla voce “Abenomics”


Una delle politiche senz’altro più conosciute del premier uscente è quella che in ambito economico prende il suo nome, l’Abenomics appunto. L’Abenomics è un’ambiziosa ricetta di politica economica ultra-espansiva che consiste in tre principali direttive o “frecce”, soprannominate così per via di un’antica favola giapponese che insegna che tre fecce insieme sono più difficili da rompere di una sola. Queste consistono in un’aggressiva politica monetaria, stimoli fiscali e riforme strutturali accompagnate da un aumento della spesa pubblica al fine di incentivare la crescita economica bloccata nel paese arcipelago da due decenni di stagnazione. Nella ricetta del premier la Bank of Japan gioca un ruolo fondamentale. Presieduta dal governatore Haruhiko Kuroda, fedelissimo di Abe, la BoJ ha massicciamente acquistato negli anni passati enormi quantità di titoli di stato nipponici e tenuto l’inflazione ad un tasso medio del 2%. In aggiunta i tassi di interesse dei titoli di stato rimangono ancora fra i più bassi in circolazione.


La domanda sorge a questo punto spontanea: l’Abenomics ha funzionato? Per un po' sì. Con lo scoppio della bolla immobiliare e speculativa dei primi anni 90 i giapponesi hanno vissuto quella che loro stessi hanno chiamato Ushiwareta Junen, ossia il decennio perduto riferendosi con questa espressione a tutto il corso degli anni Novanta. In realtà le decadi perdute sono state ben due con la stagnazione economica protrattasi per tutto il corso dei primi Duemila e accompagnata da un periodo di instabilità politica in cui numerosi primi ministri, tra cui lo stesso Abe in un suo primo mandato, si sono succeduti. Il Giappone ha vissuto pertanto in questi vent’anni un periodo di forte crisi economica e politica. Fin quando poi, nel 2012 Abe è ritornato al governo proponendo fra le tante la sua personale ricetta di politica economica. In un primo momento l’Abenomics ha effettivamente ottenuto risultati incoraggianti, l’economia giapponese è tornata a crescere dando una forte spinta all’export e al turismo, entrambi incoraggiati da uno yen debole. Inoltre, Abe ha anche tentato di spingere le grandi aziende giapponesi ad uscire dalla propria comfort zone e ad aumentare i salari dei propri dipendenti al fine di incentivare i consumi.


Le donne, l’altra metà del sole


Ma l’ingrediente più significato della Abenomics da un punto di vista sociale è sicuramente il fatto di aver fortemente incentivato l’assimilazione massiccia delle donne all’interno della forza lavoro del paese al punto che qualcuno si è spinto addirittura a parlare di “Womenomics”. In un paese profondamente ancorato alla tradizione e che prontamente finisce sempre fra gli ultimi posti negli indicatori e nelle classifiche di gender equality, la mossa di Abe fu vista all’epoca come l’elemento più interessante e innovativo della sua politica economica. Al tempo stesso però, è stata una delle più criticate. In molti hanno sottolineato come infatti l’assorbimento del lavoro femminile in Giappone sia tuttora troppo lento, e che con la pandemia di coronavirus attualmente in corso moltissime donne stiano ora perdendo il lavoro precedentemente ottenuto.


In generale il giudizio sull’Abenomics non è univoco. Molti hanno sottolineato come, con lo scoppio della pandemia l’economia giapponese sia tornata ai livelli del 2011, ovvero quelli precedenti all’era Abe. L’economia nipponica stava già affrontando diverse criticità alla fine del 2019. L’autunno scorso, un ulteriore aumento della tassa sui consumatori dall’8% al 10% (Abe aveva già aumentato la tassa nel 2014) stava già colpendo pesantemente i consumi e un tifone che si era abbattuto sull’arcipelago nello stesso periodo aveva ulteriormente aggravato i danni. Attualmente il Giappone è in recessione registrando il suo terzo quadrimestre di contrazione. Gli ultimi dati, quelli relativi al secondo quadrimestre del 2020, sono stati una doccia fredda per Abe e tutto il suo gabinetto con una contrazione annua del 27.8%, la più bassa dal 1955. Yoshitaki Nohara e Enda Curran hanno scritto in un loro editoriale su Bloomberg che la pandemia ha praticamente azzerato tutti quei piccoli ma considerevoli passi avanti che l’Abenomics era riuscita a raggiungere riportando di fatto il Giappone dritto alla casella di partenza.


2. Il Giappone come superpotenza soft


Sebbene l’Abenomics rappresenti sicuramente l’eredità più controversa di Abe, il giudizio sul suo operato in politica estera e difesa trova invece molti più consensi. È innegabile infatti che il Giappone con Abe abbia ritrovato un senso ed una dimensione strategica e geopolitica. In passato il Giappone è stato spesso chiamato un gigante economico e un nano politico e la sua diplomazia era invece nota come quella delle tre S (smiling, silent, sleeping). Con Abe il Giappone è tornato a ricoprire un ruolo di primo piano nella geopolitica asiatica e non solo. Insieme ad Angela Merkel, Abe era spesso considerato uno degli stakeholder responsabili dell’ordine internazionale nonché il leader più longevo del G7 assieme alla cancelliera tedesca.


L’Indo Pacifico di Abe, un equilibrio tra Washington e Pechino


Il contributo più importante del leader giapponese resterà sicuramente il suo “Free and Open Indo-Pacific” (FOIP). Annunciato per la prima volta durante il suo primo mandato in occasione di una visita ufficiale a Nuova Delhi dinanzi al parlamento indiano, il FOIP rappresenta la summa della nuova visione strategica del Giappone che pone al centro il rispetto di valori quali la libertà di navigazione, la rule of law e il libero commercio. Sposato appieno dalla amministrazione Trump e dalle cancellerie di Canberra e Nuova Delhi che insieme a Tokyo formano anche il cosiddetto Quadrilateral Security Diamond (QUAD), il FOIP di Abe rappresenta senz’altro il suo contributo geopolitico più significativo e vede il Giappone e gli USA come i suoi più accaniti sostenitori. Sebbene per ammissione degli stessi diplomatici giapponesi l’Indo-Pacifico teorizzato da Abe è appunto “Free and Open” a chiunque è stato fin da subito chiaro che questo progetto strategico ha una chiara funzione di contenimento anticinese e rappresenta la risposta nipponica alla Belt and Road Initiative (BRI) di Pechino.


Ed è proprio con la Cina che, nonostante le numerose problematiche legate alla crescente assertività nella regione da parte del dragone, Abe ha registrato importanti risultati. Membro di una classe dirigente con tratti fortemente nazionalisti, il premier giapponese è riuscito a trattare la relazione con il principale partner commerciale di Tokyo con assoluto pragmatismo. Dalle frizioni diplomatiche con Pechino dovute alle ripetute visite del premier al santuario di Yasukuni a Tokyo, che ospita tra i tanti le tombe di numerosi criminali di guerra che commisero orrori sul suolo cinese, Abe è riuscito a rompere il gelo e a dare nuovo slancio alle relazioni bilaterali fra i due colossi asiatici. A testimonianza di tale successo vi è il fatto che, prima dello scoppio della pandemia da coronavirus, il governo di Tokyo si stava preparando ad accogliere ad aprile proprio il leader cinese Xi Jingping, in una visita che avrebbe sancito uno storico successo diplomatico per Abe.


Tutto ciò riuscendo addirittura nell’intento di mantenere non solo ben saldi i legami con Washington, principale alleato di Tokyo nonché garante della sicurezza dell’arcipelago, ma addirittura rafforzandoli. Ciò non sarebbe stato possibile come oggi molti commentatori sostengono se non grazie all’innata capacità di Abe di saper costruire anche forti relazioni interpersonali fra lui e gli altri leader, su tutti il presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Tra i primi leader mondiali a congratularsi con il neoeletto presidente americano, Abe ha investito molto in una relazione che di certo non è stata facile per via delle politiche economiche della nuova amministrazione USA, decisamente incline a minacciare dazi e scatenare guerre commerciali, con alleati inclusi. Basti pensare che il Giappone è stato uno dei pochissimi paesi a non rispondere con altrettanto vigore alle tariffe americane sulle importazioni di alluminio e acciaio. Se le relazioni con gli USA sono considerate a la pietra angolare della politica estera di difesa di Tokyo oggi, grazie ad Abe, si può dire che questa pietra è più solida nonostante l’incertezza che ruota attorno al ruolo di leadership mondiali che l’America oggi fatica sempre più a ricoprire. Con il suo Indo Pacificio Abe mira a proiettare nuovamente il Giappone fuori dai suoi confini pur tenendo saldi i legami con il suo alleato storico.


Sud-East Asiatico come centro gravitazionale del FOIP


L’Indo-Pacifico di Abe mette al centro le relazioni con i paesi del sud-est asiatico. Negli scorsi anni Tokyo ha infatti costruito solide relazioni bilaterali con numerosi paesi nella regione quali Filippine, Vietnam e Indonesia. Ancora oggi il Giappone è il primo contributore netto nella regione con investimenti che superano di gran lunga il dragone cinese. Non solo, secondo l’ISEAS Yusof Ishak Institute di Singapore oggi Tokyo è il partner asiatico ritenuto più affidabile dai numerosi paesi della regione, un risultato straordinario se si considera lo scomodo passato che il Giappone e i suoi partner hanno dovuto lasciarsi alle spalle.


Il Giappone oltre il Pacifico


Ma con Abe le relazioni sono migliorate con numerosi altri paesi, prima fra tutti l’India. Il premier giapponese è riuscito a creare una proficua e duratura amicizia con il suo omologo indiano, il primo ministro Narendra Modi, riuscendo a coinvolgere l’India in una serie di iniziative e progetti che oggi abbracciano la sua visione dell’Indo-Pacifico e hanno aiutato Delhi a diventare nel corso degli anni un soggetto geopolitico sempre più rilevante. Non solo i già citati FOIP e QUAD, la seconda e la terza economia dell’Asia oggi collaborano nello sviluppo dell’Asia-Africa Growth Corridor (AAGC), un progetto finalizzato a promuove la connettività e lo sviluppo del continente africano. E sempre guardando all’Africa Tokyo ha da tempo rivitalizzato la sua presenza nel continente inaugurando nuove framework di cooperazione come il TICAD e nell’ottica della sua “Quality Infrastructure” sta investendo massicciamente nella regione. Frutto di questo rinnovato interesse per l’Africa è il porto di Mombasa in Kenya, il più importante hub commerciale dell’Africa orientale, dove Tokyo investirà circa 300 milioni di dollari per il suo rinnovamento o ancora il porto di Toamasina in Madagascar dove gli investimenti ammontano a 400 milioni.


È Tokyo il campione del libero mercato


Anche sul fronte degli scambi commerciali Abe ha saputo costruire prolifiche relazioni e ottenere notevoli risultati. Dal ritiro americano dal Trans-Pacific Partnership Agreement (TTP) il Giappone ha infatti saputo prendere la leadership e guida le nazioni del Pacifico alla firma di uno storico trattato ribattezzato il Comprehensive and Progressive Trans-Pacific Partnership (CPTPP). Anche l’unione regionale del Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) rappresenta un grande successo in questo senso nonostante i recenti sforzi di Tokyo di tenere Delhi nel progetto sembrino destinati a fallire. Ma quello che probabilmente rappresenta il successo più significativo è probabilmente l’Economic Partnership Agreement (EPA) firmato con l’Unione Europea che tutt’oggi è considerato il più grande FTA mai firmato, UE e Giappone insieme rappresentano infatti il 37% del commercio mondiale.


Uno scomodo vicinato


Ma la politica estera del premier uscente non è stata solo rose e fiori, ci sono state sfide e fallimenti che ovviamente dovremmo tenere in conto nel nostro giudizio. In primis le relazioni con la vicina Corea del Sud sono ai minimi storici. Le relazioni fra i due paesi sono precipitate quando i giudici coreani hanno condannato aziende giapponesi in passato responsabili di crimini di guerra. Tokyo ha reagito con ritorsioni di carattere economico, cancellando di fatto Seul dalla sua “white list”, ovvero la lista che raccoglie i partner commerciali privilegiati (tra cui vi è anche l’Italia), e rendendo più difficile e macchinoso l’importazione di tre minerali indispensabili per la produzione di semiconduttori, industria chiave dell’economia sud-coreana. Le iniziali frizione economiche si sono ben presto trasformate in una vera e propria guerra commerciale con boicottaggi di prodotti giapponesi e con serie ripercussioni nel campo della sicurezza. I sud coreani infatti hanno a lungo minacciato di ritirarsi dal General Security of Military Information Agreement (GSOMIA) che permette alle intelligence di Tokyo e Seul di condividere informazioni preziose sulla comune minaccia nord-coreana.


La disputa è stata infine risolta e il trattato è stato rinnovato ma le relazioni rimangono ai minimi storici con il dibattito pubblico relativo al passato bellico del Giappone a tenere banco in entrambi i paesi. Su tutti, il tema delle cosiddette “Confort Woman”, donne di nazionalità coreana costrette dall’esercito giapponese a prostituirsi come diletto per le truppe di Tokyo impegnate al fronte, a rimanere caldo ed a eruttare puntualmente provocando nuove e rinnovate tensioni fra i due paesi. Abe non è riuscito a mettere la parola fine su questo tema che puntualmente continuerà a tormentare il suo successore. Nel 2015 il premier giapponese ci aveva provato pagando un risarcimento alle vittime superstiti di tali abusi e cercando un’intesa con l’allora leader sudcoreano Park Geun-hye ma il nuovo primo ministro Mon Jae-min ne ha fatto carta straccia soffiando a più riprese sul sentimento antigiapponese.


Il problema delle relazioni nippo-russe


Poi ci sono i già sopracitati problemi delle relazioni con la Russia, dei rapimenti nordcoreani e della mancata riforma costituzionale. Partiamo dalla Russia. Il Giappone non ha mai firmato un trattato di pace che sancisse la definitiva chiusura delle ostilità con il suo vicino al nord. Dopo la firma del Trattato di San Francisco l’8 settembre 1951 il Giappone ha firmato trattati bilaterali con USA, Cina e Corea del Sud, ma la Russia ha sempre rappresentato un problema per quello che in Giappone è conosciuto come il problema dei territori del nord (北方領土問題) che in Russia invece sono conosciuti come isole Kurili, non distanti dalla costa settentrionale dell’isola di Hokkaido. Abe ha cercato invano per anni di riportare Mosca al tavolo delle trattative cercando di negoziare un ritorno al Giappone dei territori occupati ma ogni tentativo è di fatto fallito scontrandosi contro il totale disinteresse della controparte russa. In molti si sono infatti chiesti se quella di Abe non fosse in realtà un’asticella troppo alta persino per un leader carismatico e capace di costruire ottime relazioni interpersonali come lui.


La “normalizzazione” del Giappone, un altro obbiettivo mancato


Infine, quello che forse rappresenta insieme all’Abenomics l’elemento più controverso di tutta la politica del premier giapponese, il tentativo di riforma costituzionale che renderebbe il Giappone un paese dotato di capacità offensive. Oggetto della discordia è l’articolo 9 della costituzione giapponese. L’Articolo 9 infatti pone forti limiti all’utilizzo della forza da parte di Tokyo, motivo per cui è stato spesso liberamente interpretato da molti altri leader prima di Abe. In un contesto regionale ormai profondamente mutato, con una Corea del Nord divenuta potenza nucleare e la crescente assertività cinese nel Mar Cinese Orientale, in particolar modo nelle acque che gravitano attorno alle isole contese dalle marine di Pechino e Tokyo, ovvero le isole Senkaku (o Daiyou per i cinesi), il dibattito sulla riforma costituzionale dell’Articolo 9 e divenuto sempre più pressante in questi anni, con il premier giapponese da sempre convinto promotore della necessità di un rinnovamento. Persino all’interno dello stesso partito del premier, il Partito Liberal Democratico (PLD) non vi è un consenso univoco, al contrario esiste una galassia piuttosto differente di opinioni in merito. In un recente sondaggio condotto nel Maggio di quest’anno è risultato che il 69% della popolazione ancora oggi si oppone alla revisione dell’Articolo. Molti giapponesi infatti credono che l’articolo abbia contribuito al benessere della nazione, concentrandosi di fatto sulle priorità economiche che su quelle legate alla difesa e alla sicurezza, e che l’articolo abbia seriamente contribuito alla stabilità del paese. Cionondimeno questo non ha impedito Abe dallo spingere sempre di più verso una politica di difesa sempre più capace di far fronte alle sfide del mutato scenario regionale.


3. L’insostenibile leggerezza di un giudizio


Come molti altri leader prima di lui Shinzo Abe passerà alla storia per essere un personaggio controverso il cui giudizio sarà sempre influenzato dalle idee e dalla visione di chi ne scrive e ne parla. È già accaduto a personaggi ben noti come Ronald Regan, Willy Brandt o Mikhail Gorbacev tanto per fare dei nomi, e Abe Shinzo rientra pienamente in questa categoria che comprende tutti coloro che si sono impegnati nella loro azione politica, portando avanti la loro visione. Chiunque decida di agire si espone immancabilmente alle critiche dei propri detrattori e questa è una ovvia verità non solo in politica.


Abe non fa eccezione. La sue politiche più controverse rimarranno senz’alcun dubbio la sua politica economica espansionista che ne prende il nome e il suo tentativo di riforma costituzionale al fine di dotare il Giappone di un esercito normale e regolare, capace di operare anche all’estero, non ultimo è infatti il dibattito che anima la nazione in questi giorni riguardo alla possibilità di dotarsi di un sistema missilistico capace anche di attacchi preventivi su territorio straniero a seguito della decisione presa dal governo di rinunciare all’acquisto del sistema statunitense Aegis. Nondimeno, vi sono anche gli scandali che nel corso di questi anni hanno macchiato profondamente l’operato di Abe e l’opinione che i giapponesi hanno del loro ormai ex premier. Chi come il sottoscritto ha vissuto in Giappone in questi ultimi anni ricorderà senz’altro le cronache di tutti i principali quotidiani nipponici parlare del tanto famigerato scandalo del Moritomo gakuen (森友学園), ovvero di come fondi statali sarebbero finiti a finanziare una scuola per l’infanzia che educava bambini secondo standard conservatori e nazionalisti. Uno scandalo profondo che ha coinvolto il premier e sua moglie, Akie Abe.


Ciononostante, un leader politico dovrebbe essere giudicato nel suo insieme, ponendo sulla bilancia del giudizio i suoi meriti e demeriti. E se si decide di eseguire questa operazione con il premier Abe si capisce in fretta che il suo non è un giudizio che possa essere liquidato poi così tanto presto. Abe non ha rivoluzionato il Giappone, ma è riuscito ad intervenire abbastanza in profondità da scuoterne le fondamenta. La sua Abenomics, così come la Womenomics hanno presentato i loro fianchi scoperti e hanno mostrato tutta la loro debolezza. Tuttavia, la sua messa in atto è riuscita a riportare l’economia giapponese verso tassi di crescita annui decenti e, cosa ben più importante, a farla uscire da due decenni di stagnazione. Inoltre, ciò che Abe lascia è un governo stabile, una linea di politica economica ben definita da cui il suo futuro successore non oserà distaccarsi. Il giudizio su un leader politico dovrebbe basarsi anche su questo, ovvero la capacità di saper preparare il terreno a chi verrà dopo di lui, rimuovendo ostacoli lungo il tragitto assicurandosi così una continuità con il suo operato.


Ma è nella politica estera che, con ogni probabilità, Abe lascia la sua eredità più grande, ovvero quella di aver saputo dare al Giappone una nuova dimensione e consapevolezza geopolitica, trasformandolo grazie a numerosi progetti e iniziative in un attore chiave e indispensabile della regione, contrappeso necessario e vitale più che mai al dragone cinese. Se l’Abenomics lascia gli esperti di economia divisi il giudizio tra i commentatori, gli accademici e gli esperti di politica estera è pressoché unanime nel giudicare positivamente l’operato del premier. L’aver saputo bilanciare quel precario equilibrio tra il rafforzamento delle relazioni con gli USA, principale partener per la sicurezza di Tokyo, e il riavvicinamento alla Cina, principale cliente economico. La sua capacità innata di saper costruire relazioni interpersonali con i principali leader mondiali, da Trump a Modi e persino Benjamin Netanyau, hanno reso Abe un premier capace di costruire numerose relazioni proficue e stabili e di catapultare la diplomazia di Tokyo fra quelle più attive sulla scena internazionale.


Le recenti tensioni tra USA e Cina dovute alla pandemia di Coronavirus e le crisi diplomatiche che Pechino ha aperto con Canberra e Nuova Delhi nei recenti mesi sembrano mostrare che la scelta strategica di Abe ripagherà. La cornice del Quad che vede il Giappone tra i suoi più attivi sostenitori si andrà con ogni probabilità a rinforzare mentre è già da tempo ormai che il dibattito di una possibile entrata di Tokyo all’interno del framework di intelligence tutto anglo-sassone dei Five Eyes accoglie sempre più taciti consensi. Se Tokyo diventerà il “sesto occhio”, quello a mandorla, è ancora presto per dirlo ma già il solo fatto di parlare così apertamente dell’entrata di un paese asiatico di quella che rappresenta la quinta essenza culturale dell’impero americano rappresenta di per sé un notevole successo di cui bisogna dare atto dell’operato di Abe.


Una volta, quando lavoravo a Tokyo, ebbi modo di discutere con una collega riguardo ai cambiamenti e alle trasformazioni a cui il Giappone andava in contro. “Il Giappone sta cambiando”, mi diceva, “Lentamente, ma lo fa.” Ripensando oggi a quelle parole mi rendo conto quanto fossero vere e riassumano brevemente l’operato del premier uscente. Il grande merito di Abe non è quello di aver rivoluzionato una nazione da sempre restia al cambiamento e arroccata nelle sue tradizioni. Il grande merito di Shinzo Abe e di aver saputo accompagnare quella nazione sulla via del cambiamento, dolcemente e gradualmente. Di non aver rivoltato ma bensì scosso quanto bastasse le sue fondamenta. Non senza intoppi ovviamente ma rimanendo fedele a quello che è la sua visione del paese. Il Giappone oggi è tornato a ricoprire un ruolo di primo piano in uno scacchiere internazionale multipolare con giocatori pronti a sfruttare ogni passo falso degli avversari. È questa l’insostenibile eredità per chiunque aspiri a divenire il nuovo shogun.

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Bibliografia

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