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Il (non) mistero degli attacchi alle petroliere nel Golfo: una nuova guerra del petrolio?

  • 17 giu 2019
  • Tempo di lettura: 3 min

Aggiornamento: 14 dic 2020


Credit: Isna/Afp

Fin dagli albori del XX secolo, il petrolio è stata probabilmente la ragione più importante dietro l’esplosione di conflitti, un fattore decisivo per la vittoria o la sconfitta, un’arma di ricatto o di rappresaglia, un veicolo di alleanze.

Dalla spartizione del Medio Oriente dopo la Prima Guerra Mondiale alla storica alleanza tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita; dal fatale cambio di strategia di Hitler in Russia, dettata dalla necessità di assicurarsi il controllo sui pozzi di petrolio del Caucaso alla guerra Iran-Iraq negli anni 80, gli esempi sono numerosi e non hanno cessato di emergere.

Lo scorso 13 Giugno, due navi petroliere dirette in Giappone dagli Emirati Arabi Uniti, sono state attaccate in prossimità dello Stretto di Hormuz, che divide l’Iran dai Paesi dei Golfo.

Un mese prima, un episodio simile ha danneggiato, meno gravemente, quattro navi cariche di prodotti raffinati, due saudite, una norvegese e una emiratina.

Un’indagine sulla dinamica del primo incidente ha messo in luce come un attacco tanto sofisticato non possa essere stato realizzato che da un attore statale con significativa capacità operazionale. L’Ambasciatore saudita alle Nazioni Unite non ha tardato ad identificare il colpevole nel grande rivale regionale del Regno, l’Iran, seguito dal Segretario di Stato americano Mike Pompeo e da buona parte dell’establishment americano, i cosiddetti “falchi”, ostili alla Repubblica Islamica e favorevoli all’eliminazione delle sanzioni e all’isolamento del paese.

Al di là della responsabilità degli attacchi, l’episodio assume una connotazione significativa se si pensa che il 30% del petrolio e dei prodotti raffinati trasportati via mare ogni anno passano attraverso lo Stretto. Già durante la sanguinosa guerra tra Iran e Iraq (1980-1988), i due Paesi hanno preso le navi nemiche in transito nella lingua di mare come obiettivo. Più recentemente, l’escalation nei rapporti tra l’Iran e i (numerosi) nemici, la chiusura dello Stretto è stata chiamata in causa come la minaccia più grave.

Durante lo scorso mese, altri episodi riconducibili all’Iran hanno infiammato la regione: l’attacco di un drone ad un oleodotto saudita a 700 km dal confine con lo Yemen, rivendicato dalla milizia Houti, sostenuta dall’Iran e attiva nella guerra civile yemenita; il lancio, da parte dello stesso gruppo, di un missile che ha colpito l’aeroporto internazionale di Abha, a 200 km dal confine, causando 26 feriti; il danneggiamento di due stazioni di pompaggio in territorio Saudita da parte di un altro drone, ancora una volta riconducibile alla milizia yemenita.

Gli attacchi ravvicinati potrebbero essere un segnale da parte dell’Iran per dimostrare agli USA, ma anche ad Israele e ai Paesi del Golfo nemici, che nonostante la strategia della “Diplomazia coercitiva” messa in atto dagli Stati Uniti attraverso le sanzioni, Teheran non ha intenzione di piegarsi al volere dei nemici senza opporre resistenza e rivendicare le proprie ambizioni regionali. Il Paese si é ritrovato, con la re-introduzione delle sanzioni da parte degli USA e la cancellazione delle deroghe accordate ad alcuni Stati particolarmente dipendenti dal petrolio iraniano, a vedere le proprie esportazioni dividersi per sei, precipitando da 2.5 milioni di barili al giorno nel Maggio 2018 a solamente 400,000 b/d nello stesso periodo di quest’anno.

La minaccia di chiudere lo Stretto rimarrà probabilmente tale: l’Iran sa bene che se messa in atto, essa sarebbe interpretata come un vero e proprio atto di aggressione a cui seguirebbe un’azione militare che entrambe le parti hanno interesse ad evitare.

Le navi petroliere, e più in generale lo Stretto di Hormuz, rimangono gli obiettivi più pericolosi. Azioni come i sabotaggi dello scorso mese potrebbero facilmente degenerare ed essere strumentalizzati dalle frange più bellicose dei rispettivi governi fino ad arrivare al conflitto aperto. L’attacco del 13 Giugno ha causato un istantaneo aumento del prezzo del greggio del 4% (presto tornato a livelli normali) e dei costi di trasporto della materia prima: più le petroliere di addentrano in zone considerate pericolose, più il costo delle assicurazioni su imbarcazione, equipaggio e carico aumenta.

Il blocco totale dello Stretto porterebbe non solo venti di guerra, ma anche un aumento significativo del prezzo del petrolio su scala mondiale, con conseguenze per l’intera economia globale.

In un’epoca che sembra voler voltare pagina e abbandonare l’uso delle energie fossili, una “guerra del petrolio” suona come qualcosa di lontano nel tempo. I recenti episodi dimostrano invece che il pericolo non è alle spalle e non lo sarà ancora per lungo tempo.

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