Geopolitica del cambiamento climatico: se l’interesse nazionale ha la meglio sulle buone intenzioni
- 13 dic 2019
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 14 dic 2020
(di Greta Zunino)

Mai come oggi la società è stata tanto attenta al tema del cambiamento climatico, quanto lontana dal combatterlo efficacemente.
Pochi giorni fa lo United Nations Environment Programme (UNEP) ha pubblicato il proprio rapporto annuale sull’emission gap, vale a dire lo scarto tra le emissioni di gas serra prodotte e la soglia massima per limitare il temuto aumento delle temperature oltre gli 1.5°C a livello globale.
Il messaggio èchiaro: il contenimento delle temperature al di sotto della soglia oltre la quale gli effetti sull’ambiente sarebbero devastanti impone, tra il 2020 e il 2030, una riduzione delle emissioni del 7.6% ogni anno. La produzione di gas serra al livello attuale porterebbe ad un incremento medio globale di 3.2°C, più del doppio del livello di guardia.
Il rapporto sottolinea che se misure adeguate fossero state prese 10 anni fa, la riduzione di emissioni si sarebbe potuta limitare al 3.3% per anno, meno della metà di quanto sia necessario oggi.
Il cambiamento climatico ha notevoli implicazioni a livello geopolitico, al di là dell’impatto sulla vita dei singoli cittadini.
L’apparente largo consenso dei governi intorno alla necessità di agire in tempo per evitare conseguenze maggiori[1] cela le dinamiche di conflitto tra i diversi paesi in merito alle singole responsabilità di fronte al problema e la volontà di difendere il proprio interesse nazionale.
Un esempio lampante è quello della Cina. Il paese vive nel paradosso di aver firmato gli Accordi di Parigi e allo stesso tempo essere di gran lunga il paese responsabile della più grande quantità di emissioni di CO2 al mondo[2] e di non accennare a volerle diminuire: le emissioni prodotte dal gigante asiatico sono balzate da 4 a 13.5 GtCO2 tra il 1990 e il 2018, nonostante un aumento considerevole dell’energia prodotta da fonti rinnovabili (vedi articolo “Dipendenza, efficienza ed eccellenza tecnologica: la situazione energetica della Cina di oggi”). Il rallentamento dell’economia e lo spettro della guerra commerciale con gli USA hanno messo la questione climatica ed ambientale in secondo piano: secondo Bloomberg New Energy Finance, gli investimenti nel settore dell’energia rinnovabile in Cina nel primo semestre del 2019 sono diminuiti del 40% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente; allo stesso tempo, le emissioni di CO2 sono aumentate del 3% su base annuale e hanno contribuito a ben la metà dell’incremento a livello globale.
In Europa, la questione dell’Emission Trading System (ETS) è un caso altrettanto evocativo. Ispirata dal Protocollo di Kyoto (1997), l’Unione Europe ha lanciato, nel 2005, il primo (e per ora unico) “mercato” regionale di emissioni al mondo. Si può descrivere l’ETS come un sistema in cui le emissioni di CO2 ed altri inquinanti hanno un costo, e tutte le entità che ne producono in grande quantità, per esempio le industrie ad alto consumo energetico e le centrali elettriche a combustibili fossili, sono tenute a non superare, complessivamente, una soglia di produzione e ad acquistare un numero di crediti equivalenti alle proprie emissioni. Il meccanismo, noto come “Cap and trade”, dovrebbe incoraggiare le realtà industriali a ridurre le proprie emissioni, così da dover acquistare il minor numero di crediti possibili e a poter eventualmente vendere quelli inutilizzati. Quello che è accaduto a livello europeo, rendendo di fatto il meccanismo vano, é stata l’emissione di un numero di quote eccessivo, e la conseguente caduta del prezzo di ciascuna quota. Per le industrie é risultato, e risulta tutt’ora, più conveniente acquistare crediti piuttosto che prendere provvedimenti atti a tagliare le emissioni, limitando così le quote necessarie a portare avanti le proprie attività.
I provvedimenti presi dall’Unione Europea non sono stati sufficienti a rimettere in carreggiata il sistema, forse per una presa di posizione dei paesi più industrializzati i quali, in una dinamica puramente geopolitica, hanno voluto tutelare le proprie attività produttive, anche a fronte di una concorrenza internazionale sempre più feroce. Nonostante l’ambiguo successo dell’ETS, bisogna riconoscere all’UE il merito di essere stata la prima ed unica realtà regionale al mondo ad implementare il sistema, rendendola di fatto un esempio prezioso per tutti i paesi e le organizzazioni regionali che vorranno intraprendere la stessa strada.
Il compromesso tra crescita economica e difesa dell’ambiente pone tutti, dal singolo cittadino al capo di Stato, di fronte a decisioni complesse e ad interessi contrastanti. Le buone intenzioni di molti poco possono di fronte ad un sistema in cui non esistono, di fatto, meccanismi per obbligare i singoli paesi a raggiungere gli obiettivi prefissati negli Accordi di Parigi.
Si dice che i politici guardino al presente, gli statisti al futuro. La ragion di Stato di oggi, però, potrebbe essere la catastrofe di domani.
Note
[1] Con la lampante eccezione degli USA sotto la Presidenza Trump – il quale ha avviato le procedure per far uscire il paese dagli storici Accordi di Parigi del 2015
[2] Secondo l’Emission Gap Report, nel 2018 la Cina ha emesso 13.5 GtCO2, Il secondo paese con più emissioni in termini assoluti sono gli USA (poco più di 6 GtCO2), seguiti dall’UE, i cui 28 Stati hanno contribuito complessivamente a circa 5 GtCO2. La classifica cambia se si considerano le emissioni per capita: gli USA sono in testa con 20 tCO2, seguiti dalla Russia (16 GtCO2) e, inaspettatamente, il Giappone (11 GtCO2).
Fonti
Emissions Gap Report 2019 – Full document
10 things to know about the Emissions Gap 2019 - Summary
Climate change: how China moved from leader to laggard
EU Emissions Trading System (EU ETS)
CO2 European Emission Allowances
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