L’Etica, la Guerra e l’Ipocrisia
- Alessandro Vivaldi
- 7 mar 2022
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 23 mar 2022

1. Che cos’è la guerra.
La guerra, intesa come insieme di fatti bellici, è uno di quei fenomeni su cui l’umanità si interroga sin da quando ha imparato a pensare: non è un caso che in tutte le religioni esista un dio della guerra o una versione dell’unico dio in formato guerriero. Non è questo il luogo adatto per rimembrare tutti gli intellettuali che se ne sono occupati, in ogni sorta di disciplina, dall’antropologia alla psicologia, dalla filosofia alla storia. In quanto fenomeno complesso e declinabile in mille sfaccettature, le parole spese sono infinite e chi scrive dubita si arriverà mai a conoscerla completamente. Va detto, tuttavia, che esistono persone che ne hanno una maggiore conoscenza rispetto ad altre. Chi scrive “esperisce” le conseguenze della guerra sin da bambino, avendo viaggiato sin dalla tenera età in luoghi dove la guerra era passata, in quanto figlio di militare e in quanto aduso a leggere manuali di stato maggiore sin dall’infanzia.
Studio e osservo la guerra, con approccio olistico, e per estensione le sue cause, oramai da 30 anni. Chi mi conosce sa che tra i miei libri preferiti – non a caso – vi è Un terribile amore per la guerra dello psicologo americano James Hillman. Non è uno dei miei libri preferiti a caso: Hillman si concentra sulla terribile attrazione per la guerra anche di coloro che ne hanno vissuto gli effetti più deleteri (Disturbo post traumatico incluso). C’è un punto fondamentale che tengo sempre a mente dell’opera di Hillman: egli sottolinea come in quella fucina di atrocità che è la guerra, tutte le menzogne, le maschere umane vengano fuse e rese inutili, è in quella crudele fucina che vediamo veramente ogni essere umano come realmente è.
Qui considererò la guerra come quello strumento di potenza utilizzato da gruppi umani – recentemente si può dire “nazioni” – allo scopo di ottenere uno specifico e auspicato risultato politico. Non me ne vogliano i più accademici se la definizione è semplicistica: come detto non è questo di cui intendo discutere.
Apparentemente asettica come definizione, ma in realtà in sé porta – la guerra – una serie di considerazioni emotive non indifferenti. La guerra – per la nostra cultura – non è mai giustificabile. Per chi scrive, una guerra non è mai giusta, checché ne dica la storia del diritto che ne ha trattato estensivamente. Il mio professore di Filosofia del liceo mi ripeteva sempre: la giustizia non tollera aggettivi. E concordo ancora con questa definizione: ogni giustizia seguita da aggettivo è necessariamente parziale. Ecco, la guerra funziona al contrario: tollera qualsiasi aggettivo, soprattutto peggiorativo (come “guerra civile”), ma non potrà mai tollerare un aggettivo come “giusta”: non esistono guerre giuste.
Eppure, la guerra esiste e, soprattutto, esisterà sempre. Il dovere di un intellettuale serio, di fronte all’esistenza di qualcosa di così terribile, è quello di comprenderne la natura. Se la guerra esisterà sempre, come posso mitigarne il rischio? Così nascono i trattati internazionali, così nascono le Convenzioni di Ginevra, così nasce il diritto di guerra.
Ovviamente sono misure di mitigazione del rischio, intese a limitare i danni di un evento che può anche finire con una vittoria, ma comporterà sempre un dispendio di vite umane e di conseguenze ad ogni livello.
Come tutte le tragedie, la guerra ha il suo fascino. La guerra – che vi piaccia o meno, e rimando al testo di Hillman – è sublime. Nel senso proprio di terribile e bella. Una consistente parte del genere umano ne subisce il fascino. Soprattutto in occidente, dove le guerre le osserviamo, ma non le combattiamo. Un fascino anche macabro, e che soprattutto risveglia emozioni sopite e selvagge, che negli ultimi giorni hanno portato a nefaste conseguenze: l’incitamento all’odio nei confronti dei russi, la censura verso tutto ciò che è russo, e via discorrendo.
Io mi trovo, come da ormai tanti anni a questa parte, a spendere ore a osservare video, leggere articoli e – tristemente – a guardare cadaveri. E mentre buona parte della nostra opinione pubblica – ovviamente – glorifica alcuni e incita all’odio verso altri, io mi ritrovo a pensare a come muoiono i ragazzi ucraini e i ragazzi russi, uniti nella stessa atroce fucina.
2. L’etica del soldato, l’etica dell’intellettuale.
Sono stato cresciuto da un ufficiale dell’Esercito e un’addetta dell’Agenzia delle Entrate. Entrambi i miei nonni hanno servito durante il secondo conflitto mondiale. Ho servito come volontario nell’Esercito. Questo ha sempre inciso sulla mia etica personale: se il Capo (ovvero il Presidente della Repubblica) mi dice di vaccinarmi, io mi vaccino. Se il Capo mi dice di fare la guerra alla Russia, io la faccio. Non perché io sia ottuso e obbediente, come spesso i civili pensano dei militari. La mia è una precisa scelta fondata sulla consapevolezza: c’è il momento per alzare la mano e dire “no”, e il momento per obbedire a delle scelte certamente discutibili, ma nella vita talvolta bisogna avere il coraggio di scegliere il male minore.
Come ex militare, ma soprattutto come intellettuale, come antropologo, come essere umano, disprezzo la guerra e condanno chi la comincia e obbedisco a quanto il Capo mi chiede: dobbiamo fare muro, alzare la voce e riportare una cultura che rispetta soprattutto la forza – quella russa – al tavolo dei negoziati.
Ma come intellettuale non posso tacere e negare le responsabilità condivise di questa guerra. Chiariamoci: in tutti gli eventi complessi, non c’è mai un solo responsabile. C’è un responsabile con più colpa? Certamente, e in questo caso è la Russia che ha invaso un altro Paese. Questo può permettere all’Europa di non farsi un esame di coscienza e mettere mano alle proprie responsabilità ed errori? Assolutamente no.
3. La feroce ipocrisia di un’Europa intellettualmente disagiata.
Negli ultimi giorni non ho solo dovuto “reggere” le buffonate di associazioni sportive e culturali (dalla FIFA che sanziona la Russia al bando della nazionale paralimpica, fino al bando dei gatti russi dalle competizioni internazionali), ma anche le castronerie della Bicocca (sic!) e di altre istituzioni culturali, unitamente al rilascio di un infinito numero di messaggi di odio nei confronti dei russi e della cultura russa, ovviamente ivi incluse minacce di morte a funzionari russi di ogni risma, Putin incluso.
Io sfortunatamente sono uno di quelli che critica animatamente la presunta superiorità morale occidentale. Se non altro perché ogni volta che l’occidente si è sentito moralmente superiore, abbiamo fatto milioni di morti, motivo per il quale – tra le altre cose – molti intellettuali, antropologi in primis sin dal 1947, parlano di “neocolonialismo dei diritti umani”. Sono un realista politico, un antropologo e uno storico: per me la democrazia – soprattutto quella liberale – non è un valore assoluto. Anche qui, chiariamoci: io sto bene dove sto e non ho la minima idea di preferire regimi autoritari, perché ci tengo alla mia etica intellettuale e qui, dove sono, posso dire comodamente la mia senza rischiare la pelle. Ciò non toglie che la democrazia, in quanto “cultura”, passerà e il suo valore è tutt’altro che assoluto e universale.
Il punto, tuttavia, è che mi sta sorgendo qualche dubbio. Speravo che di fronte a una guerra il mio attaccamento all’occidente si sarebbe rinsaldato. Invece, obbedisco, ma la mia etica mi dice: hai il dovere in quanto intellettuale – parafrasando Chomsky – di dire quello che vedi e quello che pensi.
Quello che vedo è una censura a dir poco blasfema: nell’ultimo mese si è alzato un coro di voci autorevoli, composto di esperti militari, ex generali, ambasciatori e altri, che hanno criticato non poco l’approccio occidentale ai problemi che la Russia stava ponendo: tutti vengono tacciati di essere “filorussi”, “amici di Putin” e così via. Insomma, se qualcuno pone la domanda, legittima, circa le responsabilità della diplomazia occidentale inerenti questa guerra, è un traditore, perché pone domande scomode. Porre domande scomode non significa giustificare l’aggressione russa. Intendevano – come anche il sottoscritto – ricordare all’opinione pubblica che alla guerra non si arriva mai – la storia insegna – perché un pazzo decide così. No, neanche nel caso di Hitler troverete in un manuale di storia l’adagio “ha scatenato la guerra perché era pazzo”. Ecco, oggi sbandierare ai quattro venti “Putin è un pazzo e vuole la terza guerra mondiale” è il miglior modo per gli occidentali di cantarsela e suonarsela da soli, di rinnovare la stantia e nauseabonda narrativa del “noi siamo i buoni, tutti gli altri cattivi”.
Se non fosse che Cina, India e Pakistan, per un totale di oltre 3 miliardi di persone, si sono astenuti dal condannare la Russia. Il che, chiariamoci, non significa che io giustifichi – repetita iuvant – l’aggressione. Significa, semplicemente, che forse il mondo non è esattamente come lo vediamo noi, e forse è ora di aprire gli occhi.
4. I ragazzi che muoiono e i bambocci che urlano.
Quando guardo i cadaveri dei soldati ucraini e russi nei filmati, sono preso da un brivido di tristezza. Una sensazione che provo ogni volta, probabilmente guidata dalla mia empatia. Cosa si prova quando si va a morire consapevolmente? Quanto è terribile quell’esperienza? Come si fa ad autoannichilirsi in una battaglia? Quanto si odia?
Io non riesco a provare odio per quei ragazzi, né per i russi, né per gli ucraini. Perché il presupposto di un soldato è servire, ed egualmente servono. Ovviamente fanno discorso a parte coloro che commettono crimini. Anche questo, però, fa parte della disumanizzazione che la guerra attua su chi vi partecipa. E anche qui, il mio parere è tristemente descrittivo, non giustificativo, iddio ce ne scampi.
Invece qui, in Europa, mi ritrovo circondato di bambocci che sono sul piede di guerra virtuale e incitano all’odio contro la Russia e contro chiunque alzi la mano e dica “ok, forse dobbiamo porci qualche domanda”, bollando tutti con epiteti come quelli sopra menzionati, ma anche ben peggiori. Bambocci che imparano a memoria parole e concetti come “benaltrismo” e “whataboutism” per far tacere gli altri, in quanto troppo limitati per comprendere che un’Etica vera, una Giustizia vera, un sistema di diritto internazionale vero, devono basarsi proprio sul benaltrismo, ovvero sull’esempio: se io non seguo le regole che imposto, come posso pretendere che lo facciano gli altri? E quindi, mi verrebbe da chiedere, se siamo tanto etici e giusti sull’Ucraina, dov’eravamo negli anni passati e dove siamo ora che civili e soldati muoiono in tanti altri paesi, anche e soprattutto sotto bombe europee e statunitensi?
Sarà, il mio, “whataboutism” di un “boomer”, come dicono oggi i raffinati intellettuali di internet? Probabile. Ma io ho una coscienza, ho un’etica, e le seguo pedissequamente ANCHE e soprattutto quando non mi conviene.
Non credo che tutti possano dirlo allo stesso modo.
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