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El Salvador sin fronteras: un caso di transnazionalismo economico e familiare minacciato

  • 27 nov 2019
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 1 nov 2020

Recentemente gli Stati Uniti hanno annunciato la fine del programma Temporary Protected Status (TPS) per i migranti provenienti da una serie di Paesi, tra cui Sudan, Haiti, Nicaragua. Al contempo un giudice federale ha bloccato l’iniziativa dell’amministrazione statunitense nei confronti dei migranti proveniente da El Salvador, dopo che l’American Civil Liberties Union ha intentato una causa contro il provvedimento.

Il TPS è uno status legale che permette a coloro che altrimenti sarebbero migranti senza documenti di risiedere e lavorare legalmente negli Stati uniti per 18 mesi.

Molti migranti salvadoregni sono titolari del TPS da decenni e ogni anno attendono il suo rinnovo. Nell’attesa di giudizio, l’amministrazione a stelle e strisce è stata costretta ad annunciare l’estensione della validità del loro TPS fino a gennaio 2021.

Il governo di El Salvador ha fatto un uso mediatico piuttosto distorto della vicenda, annunciando che il governo USA aveva deciso di prorogare il programma TPS per i salvadoregni che hanno deciso di migrare per cercar fortuna. Anche se è vero che il TPS sarà valido fino a gennaio 2021, ciò non significa che si tratti un ampiamento del programma.

Ken Cuccinelli, direttore dell’agenzia U.S. Citizenship and Immigration Services (USCIS), ha chiarito che non c’è nessuna estensione in vista per i migranti salvadoregni, specificando che il permesso di lavoro è stato loro esteso per un altro anno in vista di un orderly wind-down period, letteralmente un periodo di liquidazione graduale. In altre parole, è probabile che ai salvadoregni sarà concesso un periodo aggiuntivo affinché possano tornare nel proprio Paese in modo ordinato, senza creare troppi problemi alla frontiera meridionale del gigante nordamericano.

Concesso ai salvadoregni per la prima volta dal Congresso nel 1990, il TPS finì due anni dopo per poi essere reintrodotto dopo il terremoto che colpì El Salvador nel 2001.

Per vent’anni il TPS ha protetto i migranti salvadoregni (e non solo) presenti nel Paese dal timore dell’espulsione e del rimpatrio.



Il Paese cafetero

Il legame tra El Salvador e gli USA risale agli anni Trenta e Quaranta, quando buona parte delle entrate ottenute dalla florida produzione del caffè, non a caso conosciuto come el grano de oro, proveniva dall’importazione dei chicchi verso gli Stati Uniti. Una complessa rete di relazioni fu allora costruita intorno al caffè, alla forza lavoro necessaria per la sua produzione e ai circuiti finanziari che si estendevano tra i due Paesi. I guadagni ottenuti dall’importazione del caffè rientravano nel paese centroamericano sotto forma di motori elettrici, luci, telefoni, radio, auto e altri materiali che fungevano da segni tangibili che la modernizzazione statunitense era anch’essa un prodotto d’esportazione.

Al contempo, le zone rurali rimasero escluse da questa rete redditizia, dalla ricchezza e dal progresso generati dal grano de oro nei centri metropolitani, soprattutto nella capitale San Salvador. I proprietari terrieri ricordano con un senso di separazione quel periodo della storia economica nazionale. Alla fine degli anni Cinquanta questa situazione contribuì a rendere popolare la convinzione secondo cui il paese era nettamente diviso lungo l’asse urbano-rurale, caratterizzato dalla contrapposizione tra un’élite urbana dedita alla produzione del caffè e un’ampia classe contadina impoverita.

Questo spiega perché proprio negli anni Sessana i primi migranti salvadoregni si trasferirono negli Stati Uniti, in particolare a Washington DC. Si trattava prevalentemente di salvadoregni appartenenti alle famiglie dei proprietari terrieri.

Due decenni dopo, negli anni della guerra civile, si verificò una seconda ondata migratoria, questa volta di massa.

Hermanos Lejanos

Negli ultimi anni il governo salvadoregno ha insistito su una narrazione mitizzata della migrazione, allo scopo di consolidare l’invio di rimesse in grado di finanziare lo sviluppo del Paese. La figura del “migrante-eroe” impegnato all’estero per il miglioramento della nazione e accolto al suo ritorno dal fratello lontano – hermano lejano – è al centro di questo discorso politico.

Non è sempre stato così. Negli anni della guerra civile, il governo considerava sovversivi coloro che scappavano dalla violenza. Da allora, molto è cambiato. Oggi il governo non può non tenere conto del transnazionalismo economico generato dalla migrazione.

Questo si articola in una serie di attività economiche che generano entrate per le famiglie rimaste nel Paese. Si tratta di agenzie formali e informali che consegnano beni da e verso El Salvador, giornali, agenzie di informazione, canali TV, negozi di generi alimentari, ristoranti, laboratori di artigianato, agenzie per i trasferimenti finanziari, piccole imprese e, infine, di imprese di migranti rientrati nel proprio Paese dopo l’esperienza della migrazione.

Senza entrare nel merito, è importante segnalare che intorno alle rimesse generate da queste attività si è sviluppato un ampio dibattito, che include anche la questione della rischiosa dipendenza dell’economia del Paese dalle stesse.


Famiglie oltre le frontiere

Il transnazionalismo economico è intrinsecamente legato a quello familiare. In circostanze economiche difficili, il transnazionalismo è una strategia che molte famiglie adottano per sopravvivere.

I genitori migrano alla ricerca di migliori salari da mandare ai loro figli sotto forma di rimesse. Nel migliore dei casi, in questo modo i figli hanno accesso a migliori opportunità di formazione e di vita, pur pagando un prezzo molto alto dal punto di vista emotivo.

Le politiche migratorie, dunque, si intersecano con i ruoli che uomini e donne ci si aspetta che svolgano all’interno dei propri contesti familiari.

La posizione dei migranti in conformità con la legge o in violazione della stessa non è né un fatto naturale né un destino. Al contrario, il loro status legale – e dunque la possibilità che essi siano espulsi – è una condizione prodotta storicamente, socialmente e giuridicamente.

Chi arriva negli Stati Uniti può essere considerato un migrante senza documenti, un migrante protetto temporaneamente (titolare quindi del TPS), un residente permanente e perfino un cittadino statunitense, anche se, com’è facilmente immaginabile, queste ultime due opzioni sono difficilmente accessibili.


Little Salvador, Los Angeles, California

La migrazione ha contribuito a modificare le geografie urbane e demografiche di molte città statunitensi. Nel corso degli anni Los Angeles e Washington sono diventati i centri della migrazione salvadoregna negli Stati Uniti. Qui, i membri della diaspora hanno avuto bisogno di più tempo per concepirsi come comunità unita. Lo dimostra il fatto che a Los Angeles il quartiere salvadoregno è stato ufficialmente riconosciuto solo nell’estate del 2012. Da allora, comunque, Little Salvador gode dello status di “corridoio etnico”, al pari di Chinatown, Koreatown, Little Tokyo, Little Armenia e altri.

Questi quartieri dimostrano che, come sostenne Benedict Anderson, le nazioni sono comunità immaginate, costruite su miti fondativi e alimentate da una ricca simbologia. Little El Salvador, ad esempio, si articola intorno alla piazza intitolata a Oscar Romero, l’arcivescovo salvadoregno ucciso durante la guerra civile che è diventato un’icona nazionale.

La diaspora salvadoregna ha sempre manifestato un forte bisogno di mantenere relazioni con le comunità di origine e un forte senso del dovere nei confronti delle stesse. Molti salvadoregni all’estero, anche se non tutti, hanno concepito la migrazione come temporanea, un momento della vita di separazione e distacco dovuti a causa di forza maggiore. Ciò non significa che siano disposti a tornare a casa adesso, o in un qualsiasi altro momento in cui lo decide la politica.

La concessione del TPS ai salvadoregni nel 1990 fu l’esito di lunghe proteste organizzate e di attività di lobby condotte da organizzazioni religiose e da altre organizzazioni di difesa dei diritti dei migranti. C’è da aspettarsi che i salvadoregni siano disposi a scendere ancora in piazza, per restare.


Bibliografia

· P. Landolt, L. Autler, S. Baires, “From Hermano Lejano to Hermano Mayor: the dialectics of Salvadoran transnationalism” in Ethnic and Racial Studies, Gennaio 1999, 22(2): 290-315

· L. J. Abrego, Sacrificing Families: Navigating Laws, Labor, and Love Across Borders, Standford University Press, 2014

· D. Pedersen, American Value. Migrants, Money, and Meaning in El Salvador and The United States, Chicago Studies in Practices of Meaning, 2012

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