Cambiare restando se stessa, futuro (incerto) e sfide (difficili) della Cina
- 18 nov 2019
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 28 ago 2021
(di Edoardo Crivellaro)
“Non c'è forza che possa scuotere le fondamenta di questa grande nazione. Niente può fermare il popolo e la nazione cinese dal continuare nei progressi. Dobbiamo consolidare e sviluppare questa Repubblica del Popolo e continuare la nostra lotta”. Con queste parole si è espresso[1] il Presidente cinese Xi Jinping nel settantesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare, lo scorso primo ottobre. Al di là della retorica, per la Cina si prospettano tempi duri e difficili che saranno uno stress test fondamentale per la leadership di Xi e del Partito Comunista Cinese. Da Hong Kong allo Xinjiang, dal rallentamento economico alla deindustrializzazione del Nord-Est: la nomenclatura cinese attende l’attuale Presidente al varco, pronta a defenestrarlo se gli eventi sfuggissero di mano. Ma le incognite sono tante e la certezza è solo una: la Cina sta cercando di cambiare restando sé stessa. Solo apparente ossimoro in termini. In realtà unico modo per impedire che le proprie incongruenze latenti diventino palesi e ne azzoppino le straordinarie ambizioni. Sfida ardita, densa di opportunità e incertezze.
Hong Kong e Xinjiang, guardando a Taiwan: le molte Cine della Cina
Un numero dello scorso anno di Limes saggiamente titolava “Non tutte le Cine sono di Xi”. L’enfasi posta sul plurale “Cine” è cruciale e rivelatrice: la Cina non è un monolite omogeneo e compatto, ma un edificio costruito da tanti mattoni diversi che per ora stanno insieme, ma che conservano il potere di disgregare l’opera dall’interno e causarne l’implosione indotta.
Le identità sono ancora moneta corrente: secondo una statistica pubblicata dal Financial Times (vedi grafico seguente), ad Hong Kong negli ultimi dieci anni è aumentato il numero di coloro che si definiscono “hongkonghesi”(oggi al 53%), e diminuito il numero di coloro che si sentono “cinesi”(11%). La popolazione di Hong Kong, come afferma [2] Dario Fabbri, “è assimilabile a quella delle capitali occidentali. Vive in dimensione post-storica, ovvero crede che il benessere (o la libertà) debba essere la cifra definitiva di una collettività”. In questo è diversissima dal resto della popolazione cinese, che ha invece come stella polare non il benessere, bensì la potenza.
Ciò che è avvenuto e sta avvenendo nell’ex colonia britannica è la cartina di tornasole della debolezza di Pechino. Il centro finanziario che fa da connettore tra la Cina e il resto del mondo e da cui passano circa il 64% degli investimenti diretti esteri verso la Repubblica Popolare vuole rompere il cordone ombelicale e prendere un’altra strada. Intollerabile ambizione agli occhi della classe dirigente cinese, che farà di tutto affinchè ciò non avvenga. Lo smacco sarebbe troppo clamoroso, e le prospettive di grandezza di Pechino sarebbero definitivamente compromesse. Una dipartita di Hong Kong complicherebbe enormemente il progetto di unificazione di Taiwan, vera componente fondamentale del “risorgimento della nazione” da compiere entro il 2049. Proprio pensando a Taipei è difficile che la crisi di Hong Kong si riveli una nuova Tienanmen: il danno reputazionale sarebbe enorme, ma soprattutto diventerebbe difficile vendere ai taiwanesi la formula “Un Paese, Due Sistemi”, unica soluzione per un’unificazione pacifica con Formosa. Insomma, nel Porto Profumato si decide molto di più della sorte della regione ad amministrazione speciale; si decide il destino del Paese.
A qualche migliaio di chilometri di distanza, nello Xinjiang, regione nord-occidentale della Cina a maggioranza musulmana, vediamo plasticamente la difficoltà del centro di imporre la sua volontà alla periferia. Ciò che sta accadendo è un tentativo di sinizzare gli uiguri (musulmani turcofoni, uno dei 56 gruppi etnici riconosciuti presenti in Cina), o meglio di “uniformare il comportamento umano”, chiudendoli in campi di internamento e forzandoli a convertirsi agli usi e costumi dei cinesi “puri”, gli han. La Cina punta inoltre sul turismo per permettere a questa regione di svilupparsi e per mascherare le brutalità compiute dal governo: nel 2018 sono stati registrati [3] più di 150 milioni di visitatori, oltre il 40% in più rispetto al 2017, ed è stato inaugurato un volo diretto da Vienna ad Urumqi per cercare di far scoprire questa misteriosa zona anche agli europei.
L’importanza delle Nuove Vie della Seta è strettamente connessa alla necessaria stabilizzazione dell’Asia Centrale e dello Xinjiang. Da qui infatti passano ben tre dei cinque corridoi economici che caratterizzano la componente terrestre dell’ambizioso progetto cinese, il cui successo rimane quindi dipendente da aree molto instabili che potrebbero compromettere il compimento della contro-globalizzazione cinese.
La questione è e sarà certamente sempre di più impugnata dagli Stati Uniti attraverso la retorica dei diritti umani e delle libertà fondamentali, funzionale a delegittimare la Cina agli occhi del mondo e ad arginare il già debolissimo soft power di Pechino.
“Chiunque si dedichi al separatismo in qualsiasi parte della Cina sarà ridotto in cenere, fatto a pezzi”, ha avvertito [4] Xi Jinping durante una recente visita in Nepal.
Il Presidente è consapevole che non si può essere superpotenza senza la presenza di un ceppo etnico dominante e di un canone culturale condiviso. Non si può puntare compiutamente alla primazia globale dovendosi sempre guardare le spalle per paura che qualche quinta colonna interna ti pugnali. Hongkonghesi e uiguri si sentono diversamente cinesi, forse neanche tali, e costituiscono una spina nel fianco alle ambizioni di Pechino.

Economia e de-industrializzazione del Nord Est
Esiste una Cina sviluppata, luminosa, avanzata e tecnologica. Ma esiste anche una Cina affamata, disillusa, depressa, dimenticata. Quest’ultima è la Cina rurale e dell’entroterra, lontana dal benessere della costa. Ma è anche la Cina della Rust Belt, ovvero la Cina industriale del carbone e dell’acciaio che è stata il motore dello sviluppo del Dragone, quella che Mao chiamava la “figlia maggiore” della nazione sulle cui spalle avrebbe fatto affidamento il futuro del Paese.
Questa regione sta oggi vivendo una fase di grandi cambiamenti. Il passaggio ad un’economia di servizi e i crescenti investimenti nelle nuove tecnologie stanno infatti comportando la riallocazione di risorse precedentemente destinate ad imprese di stato del settore manifatturiero verso i poli dell’hi-tech situati sulla costa, generando un flusso di capitali e di persone che rischia di esacerbare squilibri e faglie sociali già presenti.
Dati alla mano, secondo una recente analisi [5] della Tsinghua University, circa 180 città in Cina si stanno spopolando, e la maggior parte di queste è nel Nord-Est industriale (formato dalle province del Liaoning, Jilin e Heilongjiang). Nel 1990 questa zona del Paese rappresentava [6] l’11% del PIL, mentre nel 2018 ne costituisce soltanto il 6%. Inoltre, se fosse uno stato indipendente, avrebbe il tasso di natalità più basso del mondo. La regione sconta una eccessiva dipendenza con le imprese di stato: mentre circa il 17% dei lavoratori industriali di tutto il Paese è occupato nelle SOE (state-owned enterprises), questo dato sale al 40% e al 55% nelle province nordorientali del Liaoning e di Heilongjiang. [7] Quest’ultima nel primo trimestre del 2019 ha registrato [8] una crescita ufficiale su base annua del 5,3%, il terzultimo risultato peggiore tra tutte le 34 unità amministrative provinciali cinesi, davanti alla provincia di Jilin, ultima classificata con un misero +2,4%. Come efficacemente mostrato dal grafico che segue, il Liaoning si sta riprendendo, ma fatica a fare da traino alle altre due province, che rimangono molto distanti.
Il processo di de-industrializzazione della regione sta causando conseguenze simili a quelle osservabili nella cintura della ruggine statunitense: diffusione e abuso di droghe, aumento dei suicidi e depressione. La poca popolazione rimasta si sente tradita, dimenticata, lasciata indietro.
Questo fenomeno si inserisce nel generale rallentamento dell’economia cinese, in parte fisiologico ed in parte accelerato dalle difficoltà del mercato dell’auto e soprattutto dallo scontro, non solo commerciale, con gli Stati Uniti.
Sarà quindi la Rust Belt cinese a decidere parte del destino dell’Impero Celeste come la corrispondente americana determina storicamente la direzione della superpotenza a stelle e strisce?

Il trono di Xi e la legittimità del PCC
La Cina vive una fase di transizione tra ciò che è e ciò che vuole essere. Transizione significa cambiamenti e trasformazioni, ma anche privazioni e sofferenze. Come un maratoneta che per vincere la competizione si allena faticosamente tutti i giorni, così una nazione ancora in costruzione come la Repubblica Popolare dovrà affrontare numerosi ostacoli negli anni a venire.
Xi Jinping è prodotto, non causa, di questi avvenimenti. Gli è stato permesso di abbandonare la politica del basso profilo e di centralizzare il potere attraverso epurazioni e modifiche istituzionali, mentre confucianesimo e nazionalismo hanno trovato nuova linfa.
Proprio la riscoperta del confucianesimo si inserisce nella generale volontà di serrare i ranghi, di compattare il Paese a fronte delle monumentali sfide che dovrà affrontare nei prossimi anni. L’accento posto dal filosofo sulla “armonia collettiva” serve a ricordare ai cinesi quale sia l’ordine gerarchico da rispettare: prima il Partito, poi l’individuo; mai il contrario.
Il nuovo nazionalismo di Xi ha quindi funzione difensiva prima che offensiva; serve primariamente a garantire la sopravvivenza della Repubblica Popolare e soltanto in secondo luogo a proiettare Pechino verso l’ambita supremazia globale.
La leadership più appariscente di Xi è inevitabilmente legata a doppio filo all’esito delle complesse partite sopra descritte. Il Paese, tra cerchi magici afferenti ai numerosi gerarchi epurati e parte dell’èlite tecnocratica scettica sul crescente potere del Presidente, pullula di nemici interni e silenti. Pronti a rompere gli indugi qualora la situazione sfuggisse di mano, magari già prima del prossimo Congresso del partito previsto per il 2022 (la info-grafica che segue esemplifica la complessa e articolata architettura del potere in Cina).
Il politologo Minxin Pei ha definito [9] l’attuale fase storica l’inizio della fine non solo di Xi, ma del Partito Comunista Cinese, a suo dire incapace di far fronte al rallentamento economico e alla guerra commerciale. “Il regime a partito unico potrebbe non sopravvivere fino al 2049”, sentenzia lo studioso. Simile la visione dell’economista Giulio Sapelli[sbk6] , che in un incontro al Think Tank Trinità dei Monti ha affermato: “In Cina, 400 milioni di borghesi non accettano più che 70 milioni di comunisti li dominino”.
Tuttavia, pur tenendo in considerazione l’opinione di due grandi studiosi, il futuro potrebbe riservare altri sviluppi. Si tende infatti storicamente a sopravvalutare il fascino che libertà e democrazia sono in grado di suscitare in società e in culture aliene a questi concetti, sottovalutando contemporaneamente la resilienza di strutture politico-sociali come il PCC. Indubbiamente però la Cina tra vent’anni non sarà quella di ora: quando sei il numero 2 e vuoi diventare il numero 1 non puoi sperare solo sul declino relativo del leader se vuoi garantirti un primato duraturo nel tempo. Devi attraversare tu per primo una trasformazione profonda, radicale, onerosa.
Tuttavia è meglio non illudersi: l’Impero di Mezzo non tornerà. Nelle parole [10] del professore di relazioni internazionali Nick Bisley, in futuro l’Indo-Pacifico sarà centrato sulla Cina, ma non sino-centrico. La Cina rimarrà quindi probabilmente lo Stato più potente della regione, ma non controllerà mai pienamente questa vasta porzione di terra e mare cruciale per il futuro del pianeta. India e Giappone, per esempio, non accetteranno mai i diktat di Pechino. E la superpotenza statunitense non andrà in pensione a breve.
Più probabile che la Cina stia andando incontro ad una fase di parziale introversione mascherata necessaria a mantenere l’integrità territoriale, l’indipendenza politica e la struttura istituzionale ora vigente. Sul palco si mettono in scena le ambizioni planetarie, ma dietro le quinte ci si guarda l’ombelico, consapevoli che è da lì che storicamente sorgono i problemi.
Meglio ritardare i sogni di gloria che arrivare esausti al traguardo. Il Secolo cinese non è all’orizzonte; ma la realtà più inquietante (e interessante) è che non sappiamo cosa ci aspetterà nei prossimi anni. Viviamo una fase di interregno tra un ordine esistente un po’ arrugginito e un ordine futuro che fatica a crearsi. In mezzo c’è il disordine, ci sono le scosse di assestamento, ci sono i cambiamenti, ci sono le accelerazioni della storia. Ad alte velocità, la lucidità è potere. Cerchiamo di conservarla e allacciamo le cinture: tempi interessanti ci attendono.

[3] https://www.repubblica.it/viaggi/2019/07/15/news/cina_uiguri_universo_parallelo_turisti-231237807/
[8] http://www.globaltimes.cn/content/1159071.shtml
[9] https://www.project-syndicate.org/commentary/crisis-of-chinese-communist-party-by-minxin-pei-2019-09
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