Burundi way: corsa per l'impunità
- Irene Piccolo
- 8 nov 2017
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 2 feb 2022
(di Irene Piccolo)

Oggi ritorniamo su un Paese di cui questa rubrica ha già parlato: il Burundi, uno Stato a ridosso dell’Africa subsahariana.
In questo caso, la protagonista della notizia è la Corte penale internazionale (Cpi), con sede all’Aja (Olanda), ma da non confondere né con il Tribunale penale per la ex Jugoslavia (che si rivolge solo ai crimini commessi nei Balcani dopo il 1991) né con la Corte internazionale di giustizia che dirime solo le controversie tra Stati. La Cpi invece è un tribunale permanente che giudica gli individui (anche se Capi di Stato o di governo) per crimini internazionali commessi o nel territorio degli Stati che hanno ratificato lo Statuto della Corte o a danno di cittadini degli Stati che hanno effettuato tale ratifica. In assenza di ratifica, invece, l’unico modo in cui la Corte può occuparsi di eventuali crimini è il deferimento della questione da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Tale deferimento si è, ad esempio, avuto per i crimini commessi in Libia o per quelli commessi in Sudan (nel Darfur, per intenderci), giacché né la Libia né il Sudan sono Stati parti dello Statuto della Cpi. Tale cosa, invece, non è avvenuta per la Siria (anch’essa non parte allo Statuto) poiché non vi è stato accordo in seno al Consiglio di sicurezza per poter effettuare il deferimento. La notizia che oggi voglio portare alla vostra attenzione è che il Burundi, il cui presidente – come vi ho raccontato nella notizia pubblicata il 4 ottobre in carica è sospettato di aver compiuto od ordinato di compiere crimini contro l’umanità e il cui caso era già sotto esame preliminare da parte del Procuratore della Corte, a partire dal 25 aprile 2016, è il primo Stato ad uscire dalla Corte penale internazionale (che giuridicamente ha lo status di organizzazione internazionale).
Non è stato l’unico a minacciare l’uscita, giacché sia il Gambia sia il Sudafrica avevano paventato tale intenzione, il primo perché il suo ex dittatore Yahya Jammeh si sentiva “a rischio di persecuzione” da parte della giustizia internazionale e il secondo perché accusato più volte di non cooperare con la Corte nell’arresto di Al Bashir (presidente del Sudan contro cui è stato spiccato un mandato d’arresto per i fatti darfurini, ma che si muove allegramente e liberamente per tutta l’Africa senza che nessuno si preoccupi di eseguire il mandato). Tuttavia entrambi i Paesi poi hanno mutato idea; il Gambia in particolare ha assistito, a inizio 2017, a un totale cambio di regime, giacché dopo oltre vent’anni sono state indette le elezioni che non hanno riconfermato l’ex dittatore e hanno proclamato la vittoria di Adama Barrow, un imprenditore.
Tuttavia, questo tentativo disperato del Burundi di sottrarsi alla giustizia non inficia le investigazioni avviate dalla Corte, a maggior ragione perché – come riferito nella notizia del mese scorso – la Commissione d’inchiesta ONU ha chiesto esplicitamente l’intervento della Corte penale, per cui è improbabile che, nel caso in cui la questione si presenti, il deferimento non trovi consenso unanime all’interno del Consiglio di sicurezza.
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