BREXIT: il compimento di una crisi annunciata
- 5 apr 2019
- Tempo di lettura: 13 min
Aggiornamento: 14 nov 2020

Nel corso degli ultimi anni, il vocabolario della politica internazionale si è arricchito di una nuova parola: Brexit. Che il Regno Unito si accinga a lasciare l'Unione Europa (UE) è noto a tutti dal 23 giugno 2016. Quel giorno, il 72% degli aventi diritto al voto si recò alle urne elettorali per esprimersi, in un referendum consultivo, circa la permanenza del Regno Unito nell'UE. La maggioranza (51.9%) decise di sostenere il leave. Cameron, fautore del remain, optò per le dimissioni a seguito del risultato del referendum. Theresa May prese il suo posto a capo dell'esecutivo britannico e, il 29 marzo 2017, diede formalmente avvio alla procedura dell'articolo 50 del Trattato di Lisbona. [1] Quest'ultimo prevede che uno Stato membro possa decidere di abbandonare l'UE a seguito di un periodo di transizione di due anni.
Tuttavia, il 29 marzo 2019 il processo previsto dall'articolo 50 non ha ancora avuto compimento. Infatti, l'attuale governo inglese è in preda ad un'impasse causata dalle difficoltà interne al Parlamento nell'approvare il testo negoziato dalle parti nel corso degli ultimi due anni ed evitare così il profilarsi di un'uscita senza accordo (no deal).
L'obiettivo di questo articolo è quello di fare chiarezza sullo stato attuale dei negoziati della Brexit. In quest'ottica, l'elaborato si suddividerà nelle seguenti sessioni. Nella prima verrà elaborata una breve riflessione storica, il cui compito è quello di evidenziare il rapporto tutt'altro che lineare tra Regno Unito ed UE sin dalle origini del progetto d'integrazione europea. Il secondo paragrafo sarà invece dedicato ad un'analisi geografica e demografica del voto, per capire i paesi e le fasce d'età che hanno spinto maggiormente per la Brexit. La terza sessione ha invece l'obiettivo di evidenziare gli ultimi sviluppi dei negoziati, accennare alle "hot issues" della Brexit e alle conseguenze di un'uscita con o senza accordo. L'ultimo paragrafo puntualizza brevemente i possibili scenari futuri.
I. Le altalenanti relazioni storiche tra UE (CEE) e Regno Unito dal secondo dopoguerra ad oggi
Nel 1946, un anno dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, in un discorso presso l'Università di Zurigo, Winston Churchill evidenziava la necessità per i paesi europei di procedere alla creazione degli Stati Uniti d'Europa per garantire pace, libertà e sicurezza a tutti i cittadini del vecchio continente.
Tuttavia, 4 anni dopo, l'Inghilterra guidata dal governo labourista di Clement Attlee rifiutò di assumersi la leadership del progetto d'integrazione europea, che vide nella dichiarazione Schuman (1950) la sua pietra miliare e nella creazione della Comunità Economica del Carbone e dell'Acciaio (CECA - 1951) e della Comunità Economica Europea (CEE-1957) i suoi primi passi. All'epoca, l'Inghilterra sentiva di essere ancora una potenza mondiale e orientava pertanto le sue relazioni diplomatiche e commerciali verso il Commonwealth e gli Stati Uniti, quest'ultimi partner privilegiati per comunanza culturale e linguistica, oltre che per i forti legami economici e militari che avevano fatto propendere l'Inghilterra ad entrare subito nella NATO nel 1949.[2]
Il rifiuto inglese di assumere la leadership del processo d'integrazione europea spostò l'asse di questo progetto sovranazionale verso il baricentro franco-tedesco. Fu infatti la Francia ad assumere un ruolo da protagonista: il paese d'oltralpe, grazie alle mediazioni americane, superò le ritrosie legate alla partecipazione della Germania Ovest alla CEE. [3] I primi interessamenti inglesi verso quest'ultima cominciarono a manifestarsi solo con l'ovvietà dei benefici economici apportati ai paesi partecipanti: Italia, Francia, Germania Ovest, Belgio, Lussemburgo e Olanda. Questi ultimi, infatti, potendo godere di un regime di diminuzione di barriere tariffarie e non tariffarie, profittarono dell'aumento del commercio, di maggiori possibilità per le imprese orientate all'export di aumentare i loro ricavi e di un accesso più facile ai beni prodotti negli altri paesi per i consumatori.
Negli anni '60, il desiderio britannico di unirsi alla CEE dovette fare i conti con l'opposizione del governo francese all'epoca guidato dal generale De Gaulle (1959-1969). Considerato il veto francese, il successo della CEE portò il governo Macmillan ad instaurare un'area di libero scambio, l'EFTA (European Free Trade Association) con alcuni paesi europei all'epoca non appartenenti alla CEE, al fine di stimolare il libero scambio, tramite la riduzione dei dazi sui beni industriali. [4]
Fu solo nel 1973 che il Regno Unito riuscì ad aderire alla CEE, insieme alla Danimarca e all'Irlanda. Tuttavia, la partecipazione inglese al progetto sovranazionale fu sempre connotata dalla volontà di non voler proseguire verso un'integrazione politica, ma di usufruire dei vantaggi commerciali derivanti dall'appartenenza ad un blocco economico di ampiezza regionale. Lo scarso interesse verso un'integrazione politica caratterizzò anche gli anni '80. In un famoso discorso del 20 settembre 1988 presso il College of Europe, Margaret Thatcher affermò che "la CEE è solo una delle manifestazioni dell'identità Europea." [5] Similarmente, gli anni '90 furono caratterizzati da un forte dibattito interno tra laburisti, conservatori e membri dello United Kingdom Independent Party (UKIP) sui limiti della membership alla CEE, divenuta poi UE con il Trattato di Maastricht del 1992. La volontà di porsi come uno Stato sovrano nei negoziati dei nuovi accordi a livello europeo portarono l'Inghilterra a non adottare la moneta unica, l'euro, quale tappa finale prevista dal Trattato di Maastricht per la costruzione dell'Unione Economica e Monetaria (UEM) e ad ottenere un opt-out rispetto alla zona Schengen con la ratifica del Trattato di Amsterdam del 1997. Solo iniziative di carattere intergovernativo spinsero l'Inghilterra ad una maggiore intesa con i partners europei. [6] Ciò spiega l'impegno britannico nell'assecondare la Francia nella costruzione di strumenti europei di difesa comuni, auspicati da Tony Blair e Jacques Chirac nella Dichiarazione di Saint Malò del 1998.
Nemmeno la fine degli anni '90 e il primo decennio del nuovo millennio promossero un cambiamento della prospettiva del Regno Unito verso l'UE. Al contrario, la crisi economica e finanziaria del 2008 e le conseguenti difficoltà dell'eurozona, il ruolo preponderante della Germania all'interno del processo d'integrazione europeo, le forti pressioni migratorie che hanno cominciato a verificarsi nel Mediterraneo a partire dal 2011 sono stati i principali elementi di una narrazione mediatica negativa dell'UE che ha connotato anche la campagna del referendum proposto dal governo Cameron. Il forte scetticismo britannico verso l'UE ha pertanto spinto l'establishment del Regno Unito a chiedere ai cittadini di esprimersi tramite referendum consultivo circa l'appartenenza all'UE. Il resto è storia recente.
II. L'analisi del voto
L'analisi del voto del referendum sulla Brexit permette di elaborare alcune riflessioni. La prima riguarda la composizione geografica del voto. Infatti, sebbene il 51.9% degli aventi diritto al voto si siano espressi favorevolmente per il leave ciò che emerge chiaramente dal referendum è una spaccatura tra le quattro nazioni che costituiscono il Regno Unito: Inghilterra, Galles, Irlanda del Nord e Scozia.
Inghilterra e Galles si sono entrambe espresse a favore del leave (rispettivamente 53.4% e 52.5%) mentre Scozia (62%) e Irlanda del Nord (55.8%) hanno votato per il remain. [7] In questo contesto, è ulteriormente interessante evidenziare il diverso orientamento di Londra e del Sud Est dell'Inghilterra, favorevoli alla permanenza del Regno Unito nell'UE, a dispetto del Centro e Nord del paese che ha invece votato consistentemente a sostegno della Brexit. Di sicuro, questa contrapposizione avrà fortissime ripercussioni interne al Regno Unito, perché potrebbe portare nuovamente alla luce la questione dell'indipendenza scozzese. Quest'ultima possibilità è stata evocata in un recente intervento al Parlamento europeo dal deputato dei verdi Alyn Smith, il quale ha definito la Brexit come un "self-inflicted disaster", ha dichiarato che la "migliore Brexit è la non-Brexit" e che se "l'UE non fosse esistita, qualcosa di simile sarebbe dovuto essere stato creato e che la Scozia ne avrebbe voluto far parte". A conclusione del suo intervento, Smith ha ribadito che "se la Scozia sarà, contro la sua volontà, portata fuori dall'UE, l'indipedenza della Scozia sarà un argomento che potrà tornare alla ribalta". [8]
Un altro elemento di contrapposizione emerso da questo referendum è relativo alle generazioni e alle classi sociali che vi hanno partecipato. Secondo uno studio effettuato dall'accademico inglese Thomas Sampson, le persone adulte (il 60% degli over 65) e con basso livello d'istruzione hanno votato per l'uscita del Regno Unito dall'UE, percentuale che invece si attesta al 27% per i giovani tra i 18 e 24 anni. [9] Sampson sostiene che il primato dello Stato-nazione e la definizione mediatica e politica dell'UE come capro espiatorio dei problemi del Regno Unito abbiano spinto la maggioranza degli inglesi a votare per la Brexit. La forte identità dei cittadini inglesi con la madre patria e lo scarso senso di appartenenza al progetto d'integrazione europeo ha rinforzato la necessità, molto sentita in Inghilterra, di riacquistare una totale sovranità e controllo dei confini, specialmente in tempi di forti pressioni migratorie. Infatti, sebbene il regolamento di Dublino preveda che il paese in cui il migrante sbarca debba prendersi carico della procedura di richiesta d'asilo, molti migranti giungevano sulle coste del Sud Europa con l'idea di recarsi nel Regno Unito. Questa situazione ha acuito tensioni intergovernative specialmente tra Inghilterra e Francia, ove a Calais risiede uno dei più grandi accampamenti di migranti (la c.d. giungla Calais) i quali attendono di poter attraversare la Manica per arrivare in Inghilterra. Non appare pertanto difficile comprendere perché la retorica del tornare ad essere pienamente padroni dei propri confini abbia avuto così tanto seguito nel paese di Sua Maestà.
Sempre secondo lo studio del ricercatore della London School of Economics (LSE), gli effetti della crisi economica e finanziaria hanno prodotto un peggioramento delle condizioni di vita della classe media inglese. I sentimenti di frustrazione di quest'ultima sono stati canalizzati dalla politica e dai media inglesi verso le istituzioni europee, definite come incapaci di assumere una leadership forte e di guidare il continente verso la ripresa ed una crescita stabile.
III. Lo stato attuale dei negoziati
I negoziati per l'attuazione dell'articolo 50 e l'uscita del Regno Unito dall'UE sono stati finora tutt'altro che facili. Michel Barnier, capo negoziatore dell'UE e David Davis, Sottosegretario UK per l'uscita del Regno Unito dall'UE, sono stati nominati per portare avanti queste difficili trattative.
Al momento attuale, i paesi dell'Unione e il Regno Unito si sono accordati su un documento giuridicamente vincolante, il withdrawal agreement, e un testo d'orientamento politico, la political declaration. Tuttavia, come dimostrato brillantemente dalla teoria del two-level game enunciata da Robert Putnam, gli accordi internazionali conclusi dai negoziatori non sono sempre ratificati dai rispettivi parlamenti nazionali.[10] È il caso di Theresa May, la quale per ben 3 volte (15 gennaio, 12 marzo, 29 marzo) ha visto l'accordo bocciato alla Camera dei Deputati, mettendo così a rischio la possibilità che il Regno Unito possa abbandonare l'UE con un accordo.
Tra i principali motivi di rifiuto dell'accordo da parte del Parlamento britannico vi è la questione del backstop tra Irlanda e Irlanda del Nord. Con questa locuzione si intende una soluzione, che dovrebbe entrare in vigore nel 2020, pensata per evitare che tra i due paesi si instauri un hard border, con controlli alla frontiera sia per i cittadini che per le merci. Nell'ottica dei negoziatori il backstop è considerato come uno strumento in grado di permettere alle 4 libertà di circolazione di continuare a sussistere e di non essere invalidate in caso di un mancato accordo tra le parti. Quest'opzione condurrebbe da un lato l'Irlanda del Nord ad accedere pienamente al mercato UE, ma dall'altro la costringerebbe a rispettare le regole europee legate al mercato unico. Quest'ipotesi ovviamente non consentirebbe alla Gran Bretagna di riappropriarsi pienamente della propria sovranità legislativa, uno dei leitmotiv dei brexiters. Altri elementi di forte interesse per lo sviluppo delle trattive sono i diritti dei cittadini inglesi che vivono nell'UE e di quelli europei che vivono nel Regno Unito, il regolamento dei servizi finanziari, l'allineamento di regole su ambiente, concorrenza e aiuti di stato e il c.d. "conto del divorzio", intendendosi con quest'espressione gli oneri di cui l'Inghilterra ha deciso di voler farsi carico verso l'UE fino alla fine del periodo di transizione previsto per il 2020.
Dopo il Consiglio Europeo svoltosi lo scorso 21 e 22 marzo a Bruxelles, i capi di Stato e di Governo europei avevano deciso per un breve rinvio della Brexit. La prima opzione consisteva un posticipo della Brexit al 22 maggio, qualora il Parlamento britannico avesse ratificato il withdrawal agreement. La data alternativa era il 12 aprile se il legislatore di Sua Maestà avesse bocciato per la terza volta l'accordo. Essendosi realizzata quest'ultima opzione, il presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk ha deciso di indire un summit straordinario il prossimo 10 aprile. L'obiettivo è ovviamente quello di lavorare fino all'ultimo per evitare l'avverarsi di un no-deal scenario, che darebbe luogo a incertezza sia per i cittadini europei che vivono nel Regno Unito e per quelli britannici che vivono nel nostro continente, incertezza che però colpirebbe anche la sfera politica ed economica delle relazioni tra UE e Regno Unito.
Alla luce dell'attuale contesto dei negoziati UE-Regno Unito per la Brexit, è necessario fare una considerazione. L'obiettivo di ritornare ad avere una piena sovranità legislativa è conseguibile solo nell'ipotesi di un no-deal e quindi dell'imporsi di relazioni economiche future UE-Regno Unito secondo la regola del Most Favourite Nation (MFN) dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Ipotesi che però costituisce il livello più basso d'integrazione economica su scala internazionale.[11] Quest'ultima prevede che non ci siano barriere né alle frontiere né dietro le frontiere e che pertanto non debba occorrere alcun tipo di discriminazione tra gli Stati aderenti alle regole dell'OMC. Tuttavia, gli stessi decision-makers inglesi hanno interesse a far sì che il Regno Unito possa accedere al Mercato Unico Europeo. Affinché ciò avvenga, il Regno Unito dovrebbe legarsi all'UE tramite un accordo di natura economica ma giuridicamente vincolante, come un'area di libero scambio o un'unione doganale. Ciò produrrebbe una graduale rimozione di barriere tariffarie e non tariffarie e, nel caso di un'unione doganale, l'applicazione di un'unica tariffa esterna ai prodotti importati da paesi terzi all'unione doganale medesima. Tuttavia, questo non permetterebbe al Regno Unito di guadagnare una piena sovranità legislativa, in quanto quest'ultimo dovrebbe adeguarsi alla legislazione UE sul mercato unico. Considerata la difficoltà della situazione attuale, appare pertanto rilevante svolgere un'ultima breve riflessione sui possibili scenari futuri di questi negoziati.
IV. Possibili scenari futuri
Se lo stallo nel Parlamento inglese dovesse continuare a verificarsi, il Regno Unito dovrebbe uscire dall'UE il prossimo 12 aprile senza nessun accordo. Tuttavia, considerata la convocazione del summit straordinario del 10 aprile, le parti potrebbero ridiscutere il termine di uscita del Regno Unito, specialmente perché Theresa May sembra intenzionata a far votare per la quarta volta il testo dell'accordo in Parlamento. Il problema dell'uscita del Regno Unito dall'UE è legato anche alle prossime elezioni europee. Infatti, qualora il Regno Unito uscisse dopo il 22 maggio, i cittadini inglesi sarebbero chiamati alle urne elettorali per eleggere i loro rappresentanti presso il Parlamento Europeo. Inutile sottolineare che i paesi ai quali sarebbero spettati seggi aggiuntivi in vista della Brexit potrebbero non prendere di buon grado un rinvio della Brexit oltre le elezioni europee (con la Brexit, l'Italia avrebbe dovuto guadagnare 3 seggi, Francia e Spagna 5).
Altre soluzioni possibili prevedono le dimissioni di Theresa May, la quale aveva addirittura previsto questa possibilità se il Parlamento britannico avesse accettato di ratificare l'accordo, e l'indizione di nuove elezioni generali. Meno probabile appare invece la possibilità di un secondo referendum: il Parlamento britannico, lo scorso 29 marzo, non ha solo bocciato per la terza volta l'accordo, ma ha altresì dichiarato che non darà spazio ad un secondo voto consultivo, nonostante la petizione firmata da più di 5 milioni di persone in Inghilterra che richiedeva la possibilità di potersi esprimere nuovamente sull'appartenenza del Regno Unito nell'UE e le manifestazioni pro-remain che hanno avuto luogo nel cuore di Londra nelle scorse settimane. Infine, secondo la Corte di Giustizia dell'UE, il Parlamento del Regno Unito potrebbe decidere unilateralmente di revocare la procedura dell'articolo 50 del Trattato di Lisbona senza avere l'obbligo di trovare alcun accordo con gli altri paesi membri dell'UE. Tuttavia, come più volte ribadito dalla PM Theresa May, l'intenzione del governo britannico è quella di dare ascolto alla maggioranza del referendum del 2016. Da vagliare rimane ancora l’ipotesi di un’unione doganale con l’UE, che però impedirebbe al Regno Unito di essere autonomo nel negoziare accordi di libero scambio con altri paesi.
Non è facile prevedere cosa succederà nelle prossime settimane, vista la rapidità dei cambiamenti e considerati i tempi stretti necessari per trovare una soluzione sostenibile per tutti i paesi europei. Tuttavia, vale la pena evidenziare che il no deal, da soluzione auspicata da nessuno rischia d’imporsi sempre di più prepotentemente col passare dei giorni. Se è possibile trarre una lezione dalla Brexit è che gli strumenti di democrazia diretta, in una fase di forte distorsione delle informazioni (disinformazione, fake news, propagande varie) possono rivelarsi un boomerang per i decision-makers che ricorrono a questi espedienti per non assumersi la responsabilità di decisioni importanti. Saranno le prossime settimane a scrivere il corso della Storia. Di certo, l'uscita del Regno Unito dall'UE non è solo una sconfitta per il progetto d'integrazione europeo e per il sistema britannico, ma è un campanello d'allarme che dovrà spingere i governanti delle nazioni e delle istituzioni dell'UE ad effettuare importanti riflessioni per diminuire la percezione di distacco tra cittadini e UE e trasformare quest'ultima in un'entità più democratica, solidale e capace di capire più in profondità le esigenze dei cittadini europei.
Bibliografia
Limes, Brexit e il patto delle anglospie.6/2016
Margaret Thatcher, Speech to the College of Europe (The Bruges Speech), Bruges, 20 September 1988
Robert, Putnam “Diplomacy and Domestic Politics: The Logic of Two-Level Games”, International Organization, vol.42, no.3, 1998, pp. 427-460
Simon Bulmer & Lucia Quaglia, The Politics and economics of Brexit, Journal of European Public Policy, 25:8, 2018, pages 1089-1098
Thomas Sampson, Brexit: The Economics of International Disintegration, Journal of Economic Perspectives, Volume 31, Number 4, Fall 2017, pages 163-184
William I. Hitchcock, Il Continente Diviso. Storia dell'Europa dal 1945 a oggi. Carrocci Editore, 1° edizione italiana novembre 2003
Sitografia
Alex Hunt & Brian Wheeler, Brexit: All you need to know about the UK leaving the EU, BBC, 31 January 2019, https://www.bbc.com/news/uk-politics-32810887
Alyn Smith – Leave a light on: https://www.youtube.com/watch?v=f2PeSJ4EOKs
[1] Il Trattato di Lisbona è stato ratificato nel 2007 dagli Stati membri dell'Unione Europea, ad eccezione della Croazia che è entrata a far parte dell'UE solamente nel 2013. Esso si compone del Trattato sull'Unione Europea (TUE), il Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE), i protocolli allegati al TUE e TFUE e le Dichiarazioni allegate all'atto finale della conferenza intergovernativa che ha adottato il trattato di Lisbona. La Carta dei Diritti fondamentali dell'Unione Europea è un testo di pari valore giuridico rispetto al Trattato di Lisbona, ma non facente parte di quest'ultimo.
[2] Va però ricordato come le aspirazioni inglesi non coincidessero con le contingenze storiche del momento: nel 1947, la gravissima crisi economica costrinse il governo britannico ad abbandonare qualsiasi velleità imperialistica su scala regionale e internazionale. L'Inghilterra perdeva il suo status di potenza mondiale, ormai scavalcata dall'egemonie di Stati Uniti ed Unione Sovietica e dall'affermarsi dell'ordine bipolare.
[3] Va infatti ricordato che, nell'arco di 70 anni (1870-1940), la Francia era stata invasa per ben 3 volte dalla Germania.
[4] Questi erano l'Austria, la Danimarca, la Norvegia, il Portogallo, la Svezia e la Svizzera. Attualmente ne fanno parte Svizzera, Norvegia, Liechestein, Islanda.
[5] Margaret Thatcher, Speech to the College of Europe (The Bruges Speech), Bruges, 20 September 1988
[6] In maniera semplice, si può definire intergovernativo la cooperazione tra Stati che non coinvolga la concessione di sovranità ad organizzazioni sovranazionali.
[7] Per ulteriori informazioni sui dati del referendum è possibile visitare la seguente fonte: https://www.bbc.com/news/uk-politics-32810887
[8] L'Intervento al Parlamento Europeo del deputato Alyn Smith è disponibile a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=f2PeSJ4EOKs
[9] Thomas Sampson, Brexit: The Economics of International Disintegration, Journal of Economic Perspectives, Volume 31, Number 4, Fall 2017, pages 176.
[10] Robert, Putnam “Diplomacy and Domestic Politics: The Logic of Two-Level Games”, International Organization, vol. 42, no. 3, 1998, pp. 427-460
[11] Secondo l'economista ungherese Bela Balassa (1928-1991), l'integrazione economica avviene secondo i seguenti step: accordi bilaterali preferenziali, aree di libero scambio, unioni doganali, mercato unico, area monetaria, unione fiscale e quindi politica.
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